Ognibene ippopotamo in Kenya

Permalink
(1996)

Esso è la prima delle opere di Dio;
il suo creatore lo ha fornito di difesa.

Giobbe 40,19

– I primi ad accorgersene sono gli avvoltoi.

Visto da una buona distanza in verticale, sembra trattarsi di un salsicciotto intriso in una densa salsa di fango. È Ognibene, che si prende cura del suo stagno. Poche settimane fa si trattava di una vasta laguna: oggi non è che una polla di melma che lo contiene a malapena. Domani, se il caldo non cesserà - e perché dovrebbe? la stagione arida è al suo culmine - sarà forse una tomba d'argilla screpolata. Ognibene ne è consapevole: diciamo pure che ne è sicuro, ora che ha sentito l'ombra nervosa degli avvoltoi danzargli sul capo. Eppure non è vecchio: il pensiero della morte dovrebbe investirlo di indignazione. Se solo non facesse così caldo, troppo caldo per pensare a qualsiasi cosa... E poi il giorno è fatto per dormire, pensa Ognibene. Se mi riuscisse di prender sonno, tutto sarebbe più semplice.

Di tanti piccoli lacchè che lo servivano e lo adoravano, non ne è rimasto che uno. È un uccelletto dal piumaggio nero, che si ostina ancora a cercar parassiti sulla crosta fangosa che copre la poderosa schiena del gigante. "Bel Dio mi sono scelto - penserà, a modo suo - un Dio che si lascia morire di siccità! A pochi voli di distanza da qui c'è il fiume: un grande fiume in giorni lontani, oggi non più che un rigagnolo, è vero: ma pur sempre un corso d'acqua limpida... laggiù gli Dei meno testardi si stringono ormai muso contro muso per conservare un posto al fresco: ma non il mio, il mio preferisce difendere il suo regno: e domani sarà cibo da avvoltoi - guardali, lassù - e da iene".


Dal canto suo Ognibene sbuffa, defeca. Un tempo questa era una gioia - nel tempo, intendi, della stagione dolce e dell'acqua limpida, quando sulla scia di feci che il gigante sparge qua e là, scodinzolando, accorrono nugoli di pesciolini festosi e variopinti. Anche per loro Ognibene è senz'altro un Dio, terribile nella sua maestosa apparizione (Signore delle correnti, Portatore di cibo, Essere immenso che trascende, con la sua mole, i limiti liquidi dell'universo). E invece, oggi: splunf, ploch, tutto questo ben di Dio buttato via. Ognibene sprofonda nei suoi stessi rifiuti.

Certo, non la si direbbe una fine dignitosa. Eppure se Ognibene resta qui è per pura coerenza. Se tu hai dei principi, se tu hai dei valori - e quale valore più grande del territorio, per un ippopotamo? - non puoi decidere di averli soltanto nove mesi all'anno, quando ti fa più comodo. D'accordo, se egli sapesse essere più elastico nel praticare i suoi valori, avrebbe più possibilità di resistere. D'accordo, probabilmente sono gli ippopotami più elastici a salvarsi, non quelli più fedeli e coerenti alle proprie convinzioni. Ma francamente - pensa Ognibene - non vedo proprio che senso avrebbe vivere, senza qualcosa di sacro. Lascio volentieri sopravvivere chi ne sente l'esigenza. Io preferisco rimanere fedele a me stesso, ai miei valori.

(Approvano dall'alto gli avvoltoi. Finalmente qualcuno che ha valori).

Si scuote da una fantasticheria il gigante, per reimmergersi immediatamente nei suoi pensieri - e nel fango, senza riuscire per altro a coprirsi interamente. L'uccelletto scatta in volo per evitare d'infangarsi. Se solo si decidesse, questo pigro Dio. Forse ce la fa ancora ad alzarsi. Ma non gli do un altro sole. E sono già troppo buono. Ah, non so nemmeno perché sto qui a perdere il mio tempo. Questo qui morirà annegato nella sua merda. Non mi merita.


Ognibene, lo ascolti, il tuo ultimo devoto fedele? Ognibene è in dormiveglia; cerca forse di andarsene senza disturbare nessuno. Se gli riuscisse, tra un pigro pensiero e l'altro, di smettere di respirare senza volere, se per distrazione le narici aperte a fior d'acqua non scendessero un po', otturandosi di fango una volta per tutte... Forse, pensa lui, se mi perdo tra i ricordi...

– Ma se poi finalmente prende sonno, il suo primo sogno è il Grande. Un'ombra soltanto, in realtà, un'idea vaga di una perdita, la sensazione di una promessa fatta: e non aspettatevi qualcosa di più preciso, dai sogni di un ippopotamo.

Il Grande, dunque - ma forse soltanto quattro denti grigi, enormi, spaventosi, tra i quali il destro superiore è quello orribilmente scheggiato, chissà in quale battaglia con chissà quale malcapitato rivale. Più d'ogni cosa il Grande è terribile per quel dente anomalo, che Madre Natura non gli provvide affatto: se lo procurò lui, da solo, come trofeo d'odio e di potenza. (C'è mai stato un animale più perfido dell'ippopotamo? L'unico che attenti alla vita del suo simile...). Quel dente spaccato, acuminato, può aprire squarci fatali nella più robusta delle corazze: ma quel giorno memorabile Ognibene a dire il vero aveva ancora la scorza rosea e delicata di un ragazzino che ha appena abbandonato le madri per andare a cercarsi un territorio. E che, per un misto d'ignoranza e sbadataggine, non ha fatto caso a certi chiari confini segnati sulla spiaggetta sabbiosa della laguna (due monumentali escrementi neri): insomma, immaginate il giovane ippopotamo più sprovveduto al mondo ritagliarsi il suo spazio nel bel mezzo della giurisdizione del maschio dominante più grande e feroce. Su chi scommettereste?

Ognibene beatamente ignaro oziava, naso ed occhi a fior d'acqua, godendosi la sua prima giornata di maturità, quando vide emergere d'un tratto la bocca già spalancata pronta al combattimento: quella bocca enorme, vecchia, rugosa, la porta franata di una galleria infernale: quella bocca e quei denti che il nostro eroe sogna da allora ad ogni sonno inquieto.

Il tempo di un barrito, ed il piccolo è già in fuga sott'acqua, veloce come nemmeno lui si sarebbe sognato di nuotare. Il Grande, che non vuole averla subito vinta, lo insegue: ma perde distanza. Ognibene ha muscoli scattanti e adrenalina. Ma lo spavento lo ha fatto immergere senza quasi il tempo di prender fiato, e il Grande, vecchia volpe, questo lo sa. A Ognibene basterebbe alzare un poco il muso per succhiare a fior d'acqua tutta l'aria di cui ha bisogno: questo è quello che farebbe qualsiasi ippopotamo ragionevole. Ma Ognibene, inesperto e in preda al panico, non farà così, ed il Grande lo sa benissimo. Piuttosto, non appena la sua fuga disordinata non lo porterà vicino a riva, vorrà fermarsi e alzare il muso intero, per assicurarsi di essere salvo. Orbene, è lì che il Grande corre ad attendere il piccino per spaventarlo di nuovo a morte, emergendo dall'acqua all'improvviso con le fauci spalancate.

Ognibene ora è in trappola: il Grande lo ha chiuso contro la riva del fiume. Certo, la fuga e l'inseguimento potrebbero continuare in campo asciutto: ma lì la mole del Grande è persino più temibile. Del resto per un ippopotamo la fuga equivale alla resa: ma che può fare ancora chi si è già arreso incondizionatamente? Ognibene non lo sa, non ha nemmeno tutto questo tempo per riflettere: dopo tutto, è solo un ippopotamo. L'istinto, in questi casi, può tirare strani scherzi. Di nuovo di fronte ai quattro denti orribili, Ognibene di scatto abbassa il capo nell'acqua, in apparente segno di riverenza: ma poi immediatamente lo risolleva in alto, le mascelle spalancate a sprizzare ettolitri d'acqua sul muso del Grande. Che affronto!

Il nostro eroe forse non lo sa (egli del resto non ha fatto che ripetere d'istinto la mossa di tante allegre battaglie vinte coi cugini all'asilo), ma ha commesso un atto di straordinaria impudenza. Spruzzare acqua sul muso dell'avversario, equivale, nella retorica marziale degli ippopotami, a una dimostrazione di potenza, al più teatrale dei segni di sfida. (Esiste forse in natura un animale più civile dell'ippopotamo, che combatte le sue guerre con la retorica, e non con la violenza? Ma d'altro canto, vi è al mondo una creatura più ipocrita di questa, che nasconde dietro gesti rituali il proprio istintivo odio verso il prossimo?) Il Grande, che forse in gioventù ha sfigurato dei rivali per molto meno, rimane interdetto. Sono anni che nessuno osa più spruzzarlo. Di solito tutto quello che deve fare è mostrare un po' i denti, e tutti scappano. Certo, ogni tanto si trova l'imbecille che è convinto di essere il più forte, insomma il classico attaccabrighe a caccia di cicatrici: e il Grande li incontra sempre volentieri questi qui, è sempre felice di poterli accontentare. Sì, perché la crosta dell'ippopotamo si rimargina in fretta, ma il segno dello sfregio resta: e un paio di segni è quello che ci vuole per crescere un po', sanguini per un paio di giorni ed intanto impari alcune cose, metti giudizio, insomma. È questo ciò che vuole il giovane Ognibene? Il Grande esita, strano per lui. Ognibene ha ricacciato il muso giù, nell'acqua, imbarazzato. Mamma mia l'ho fatta grossa, penserà. Il Grande lo guarda a bocca chiusa.

Perché ti risparmiò, Ognibene? Perché ti lasciò andare, senza neppure lasciarti un segno? Certo suona assurdo interrogarsi sui pensieri di un ippopotamo. Blasfemo, anche. Eppure: cosa gli passò per la testa in quel momento? Forse valutò che, per farti pagare l'affronto occorreva dissanguarti, magari ucciderti, e quel pomeriggio non aveva voglia? Forse non ti considerò nemmeno, pensò che trionfare su uno sfidante così inetto era un'infamia. O magari ti prese in simpatia per quel gesto folle, riconoscendo nella tua sfacciataggine quella delle sue prime batoste... Più probabilmente ti riconobbe per un bambino allontanatosi per sbaglio dall'asilo, le cui spruzzate non vanno prese sul serio perché si sa come sono i bambini. Fatto sta che rinunciò. Diede un grugnito, a bocca chiusa, e ti voltò le spalle. Bastò il grugnito a farti scappar via, a terra.

Questo, Ognibene, il tuo primo, fallimentare debutto in società. Oltre la laguna, sul greto del fiume, le mamme del tuo asilo ti riaccolsero come se nulla fosse successo. (Vi è in natura creatura più amorevole dell'ippopotamo, vi è una madre più generosa di quella che assiste a turno a tutti i cuccioli, e li riaccoglie tra sé quando essi, delusi dalla vita adulta, vogliono tornare?) Soltanto il Grande era stato testimone del tuo fallimento. Il Grande? Se tutti gli adulti erano come lui, tu potevi ben dire addio alla speranza di crescere mai...

– Invece crebbe, Ognibene: non ci mise un giorno e nemmeno una stagione; ci vollero altre prove, ed altri fallimenti, ma alla fine crebbe. Chi l'avrebbe immaginato, eppure succede a molti. Venne il giorno della vittoria, il giorno in cui altri chinarono il capo davanti a lui, e - ci credereste? Ognibene, che tanto aveva sognato quel giorno, disperando che arrivasse mai, ora non ci trovò nulla di particolare: lo considerò una cosa ovvia, una cosa dovuta. Ora era un maschio dominante, e i maschi dominanti hanno sempre la meglio, non c'è nemmeno da gloriarsene. Così, di lì a pochi anni, Ognibene divenne un protagonista. Le femmine lo cercavano volentieri, perché lui era socievole e generoso quanto bastava, e gli altri maschi si tenevano ad una rispettosa distanza. Prima che tornasse per la ventesima volta la stagione arida, Ognibene era già uno dei padri più richiesti e prolifici, e portava sulla pelle i segni del suo coraggio: proprio in quel periodo trovò anche modo, in una rissa, di scheggiarsi un dente. Sempre in quell'estate gli capitò, per la seconda ed ultima volta, d'incontrare il Grande.

Non saprei dirvi se lo riconobbe - del resto ora il più grande era lui. Inoltre era notte - luna piena - ora di pascolo, e l'istinto portava il nostro eroe affamato su sentieri nuovi, eppure in un qualche modo familiari. C'era odore di rivale in giro, ma Ognibene era tranquillo: la zona era piena di germogli. Dove passa un ippopotamo, non può esserci tanta abbondanza: allora, o il rivale è ammalato, o è morto addirittura. In ogni caso che si facesse vivo lui, se ci teneva: Ognibene non aveva paura di nessuno.

Non aveva tutti i torti. La stagione arida è sempre il momento critico, per gli ippopotami: gli specchi d'acqua si contraggono in polle di fango, e la maggior parte degli inquilini delle lagune scendono al fiume: là in pochi metri si addensano decine di ippopotami, e sono naturalmente risse a non finire. Poco cibo, poca acqua, nervi tesi: se passi l'estate hai passato il peggio. Ma accade a volte che alcuni tra i maschi dominanti rifiutino la promiscuità del fiume. Si sa, quando non fai che pensare al territorio, questo comincia a diventare un'ossessione. Così, talvolta, il territorio finisce per farti da tomba, quando al culmine della stagione il fango si asciuga fino a chiuderti in una morsa di creta secca.

Ognibene probabilmente non rammentò che il sentiero, sul quale un curioso istinto lo guidava, era quello percorso con trepidazione anni prima, nella prima libera uscita della giovinezza. E che la laguna, niente più di una polla di fango ora, era stato il teatro della sua prima battaglia. Fu lì, alla luce della luna che Ognibene lo vide: un vecchio conservatore prigioniero della sua testardaggine. Le crepe della sua corazza si confondevano con le screpolature dell'argilla. Cercò in un qualche modo di comunicare con lui? Provò ad aiutarlo, a dissuaderlo dall'assurdità del suo gesto? Anche se ne fosse stato in un qualche modo capace, Ognibene era arrivato troppo tardi. Non trovò di meglio che rimanere lì, perplesso, a vedere come se ne va un Grande. (Vi è al modo creatura più pietosa dell'ippopotamo, che veglia sulla sofferenza e sulla morte dei suoi simili?) Forse fu là in tempo per vederlo chiudere gli occhi: in ogni caso arrivò prima dei coccodrilli.

Ne passò un paio, mezz'ora dopo: gente coriacea, messasi in viaggio apposta dal fiume per quel salsicciotto cotto alla creta. Del resto bisogna capirli, l'Estate è dura per tutti.

Ognibene ha sempre odiato i coccodrilli: il suo più grande spavento di bambino fu il giorno che un finto tronco galleggiante, rasente la riva, non sollevò all'improvviso due spaventose tenaglie a pochi metri dal cucciolo: non fosse stato per sua madre, sempre all'erta, le avventure di Ognibene Ippopotamo sarebbero terminate lì. Ecco cosa le aveva insegnato d'importante sua madre buonanima: tutti temono i coccodrilli, ma i coccodrilli temono gli ippopotami. Quando vide che ringhiare a bocca aperta non li teneva lontani, Ognibene partì alla carica. Senza darci troppo dentro, o li avrebbe raggiunti: mentre invece il suo scopo era semplicemente allontanarli. Andò avanti per quasi duecento metri, poi li perse di vista e tornò indietro: c'era il rischio che quei rettili lo avessero aggirato. E poi...

(Si era appena voltato verso la tomba del Grande, quando udì il primo latrato). Ecco, arrivavano le iene.

I coccodrilli, le iene, e prima dell'alba sarebbero arrivati anche alcuni avvoltoi: ma a quell'ora Ognibene aveva già abbandonato la sua veglia funebre, distrutto. I coccodrilli li avrebbe sempre tenuti lontani, ma le iene sono terribili, col loro maledetto gioco di squadra. Prima o poi Ognibene era dovuto cascare in un loro tranello, depistato da una iena mentre l'altra affondava i canini nella schiena del Grande. Poi, non c'era stato più nulla da fare: gli spazzini, confortati dal successo e allettati dall'odore del sangue, erano tornati all'attacco ancora e ancora. Alla fine il branco era talmente numeroso che Ognibene fu praticamente ridotto alla fuga. Tornando nello stesso luogo, la sera successiva, vide le costole del Grande emergere dall'argilla; le iene se ne erano andate, mentre alcuni coccodrilli stazionavano: li mise in rotta. La notte seguente andò allo stesso modo. La quarta notte Ognibene non trovò nessuno: brucò erba e germogli tutt'intorno, e si chiese cosa ci faceva lì: non era suo territorio, e non era nemmeno un posto particolarmente felice.

Tre notti dopo scese la prima pioggia, improvvisa e tanto attesa. Dalle parti del Grande si rifecero vivi gli spazzini: cercavano altri resti della carcassa sotto l'argilla. Ognibene non li degnò d'uno sguardo. Passava di lì spesso, tutto sommato il posto gli piaceva; forse gli ricordava qualcosa (Cosa?) Col tempo, finì per eleggere la laguna (ora una vasta e dolce laguna, feconda di piante acquatiche e pesci) a capitale del suo territorio. Vi è forse creatura più felice dell'ippopotamo nella stagione delle piogge? La Natura lo ha provvisto di tutto, e nessun altro animale osa averlo per nemico. Soddisfatto della sua nuova e, il giovane ippopotamo dimenticò il Grande (solo i suoi denti orribili tornavano a visitarlo ad ogni sogno inquieto): o meglio, dimenticò che il Grande fosse mai stato qualcun altro se non lui.

– Perciò, nell'ultima tua stagione arida, Ognibene, quando da tempo la tua mole e i tuoi canini dominano incontrastati (ma le femmine negli ultimi anni, non gradendo il tuo pessimo umore, ti hanno decisamente emarginato), non ti resta che recitare la tua fine ingloriosa e coerente, nella morsa fangosa delle tue convinzioni. È un copione che già sai, anche se non ricordi il padre da cui l'hai appreso: ma in questa vita è il tuo copione. È già notte, notte di luna piena sull'altipiano: l'ultimo uccello nero ti ha lasciato da un pezzo. Difficile per un ippopotamo dormire di notte: e gli strilli di questi avvoltoi poi, sono una tale noia... forse con una buona spinta ce la faresti ancora a sollevarti; sei molto più forte di quanto non si creda; e fuori di lì c'è ancora qualcosa da brucare: nessuno può darti noia, tu sei il Grande. Ma il fatto è che non vuoi.
Ora, che male c'è in fondo se un ippopotamo preferisce morire, per coerenza, o pigrizia, o qualsiasi altro motivo? Esso è sempre un dono: da vivo mantiene pesci e uccelli, da morto satolla coccodrilli e iene. Se non lo molesti non ti darà fastidio: e nessuno lo molesta, gli stessi leoni e le pantere se ne guardano bene. La natura gli ha dato tutto. Chi non ha avversari degni, deve saper decidere la sua fine da solo. E così Ognibene: il più potente, il più grande, la prima delle opere di Dio.



******* FINE DELLE 21 NOTTI *******

Grazie per la pazienza
Comments (7)

La strage alla sagra d'Autunno

Permalink
(2000)
Lo lasci dire a me che lo conoscevo, brigadiere: Fischio non era un tipo cattivo.

Sì. Faceva il deejay. Che vuol dire, è un mestiere come un altro: peggio di tanti altri, coi tempi che corrono. La fiera d’Autunno del 2015 finiva quella sera; cominciava a far fresco. Tra un po’ la gente avrebbe cominciato a passare le serate nei locali al chiuso, ma quell’anno Fischio non aveva nessun contratto con nessun locale. Insomma era l’ultima volta che metteva su i suoi dischi, e a nessuno gliene fregava niente. Nello Stand Giovani della fiera ci saranno state una ventina di persone si e no.

32, dice lei?

Ah, lo dice il comunicato ufficiale.

Non so, forse qualcuno da fuori ha sentito il casino e ha cercato di intervenire. Cosa crede, non si sono mica tutti arresi senza combattere… io? io quando ho visto che perdevo sangue dalla testa mi sono gettato a terra, ho fatto il morto. Lei cos’avrebbe fatto? Erano cinque a uno, Brigadiere.

No, no, mi stia a sentire, non ci fu nessuna provocazione. O meglio. Io penso che sia stato un errore mettere lo Stand Giovani così vicino allo Spazio Ricreativo Terza Età. Quelli hanno un sacco di soldi e fanno il pienone tutte le sere – ma soprattutto hanno un sound system, mi permetta, della madonna. Fischio doveva portare le casse sue da casa, e poteva anche averci della roba buona, ma senz’altro era il liscio romagnolo a sovrastare la techno, non il contrario. Quel maledetto tre quarti tutto il tempo, ump ta ta, ump ta ta… faceva uscire di testa. Già si era in pochi, e sempre gli stessi, come si faceva a farsi venire voglia di ballare? Venivamo solo per fare piacere a Fischio.

Brigadiere, non mi guardi così, lei mi crede fatto o chissà che, ma è solo stanchezza. Io dopo i funerali ieri sono andato al lavoro, cosa crede?

Sì il turno di notte. In casa di riposo, naturalmente. È un interinale. La settimana scorsa facevo la vendemmia, la sera si e no mi tenevo in piedi, secondo lei mi ci sarei buttato di mia volontà in un casino così? Senta, ho 28 anni, due lauree brevi e un diploma di specializzazione. L’altro giorno ho fatto il calcolo e ho scoperto che andrò in pensione a centovent’anni. Non è male, guardi, conosco sì, , certo, se la speranza attuale di vita è 135… Ma lei, mi permetta, brigadiere, quanti ne ha? Ottantasei? E ci va l’anno prossimo? Ah, però.

Io me la vedo male, Brigadiere, sa? A casa mi devo nascondere. Mio padre non mi vuol vedere, mio nonno mi disprezza, e la bisnonna mi chiama a voce alta dalle scale: fannullone, parassita, bamboccione. E cosa ci posso fare? Tra due anni ci sarà il concorso, e con un po’ di fortuna finirò in graduatoria, diciamo tra i primi duecento: altri dieci anni e mi sistemo. Un bilocale con la mia ragazza… chi lo sa, magari un figlio… Ma nel frattempo debbo vivere coi miei, non c’è rimedio…

…mi chiede questo cosa c’entra… beh, Fischio era nella mia stessa situazione… o peggio. Vivere coi genitori (e i nonni) per un deejay è una vera umiliazione… tutto il giorno, sentirti interrompere da una voce che ti dice tesoro, per favore abbassa il volume, stiamo cercando di vedere la milleseicentesima puntata di cuorinfranti o chennesò… esasperante… e so per certo che la settimana scorsa la ragazza lo aveva mollato: è andata a vivere con un sessantenne del ramo import-export, un tipo sportivo… uno col porsche coupé, ha presente… Fischio, per dire, era uno che si faceva prestare l’apecar del nonno, che a trasportare l’impianto gli servivano due giri…

No, apparentemente non l’aveva presa male, però chi lo sa, magari dentro ci moriva. Sono cose difficili da sopportare, alla nostra età… Per di più dal giorno dopo sarebbe stato ufficialmente disoccupato. Brigadiere! per un disoccupato alla nostra età non c’è speranza, non c’è sussidio! Sì, sì d’accordo, se al posto della patente da tecnico del suono avesse preso, per dire, quella da conducente di carrozzine, il lavoro non gli sarebbe mancato: ma i giovani devono seguire i propri interessi, non è quello che si dice sempre a scuola?

E poi i giovani devono divertirsi finché hanno il tempo. Si sente dire anche questa. E io faccio il possibile per divertirmi, per esempio l’altra sera mi sono sforzato di uscire per andare a sentire il mio amico Fischio deejay. Anche se lo sapevo già che lo Stand era un mortorio, mi perdoni la battuta orribile. Le solite facce arrabbiate – no, neanche arrabbiate: stanche. Tante smorfie non erano che sbadigli repressi.

E a pochi metri da noi, quei vecchi – pardon – quegli anziani scatenati, in centinaia a strusciarsi senza ritegno con le loro polche e le loro mazurche, tutto il tempo, ump ta ta, ump ta ta… tra cent’anni vivranno ancora e ascolteranno ancora la stessa musica, mi diceva sempre Fischio. Non si schiodano. Certo, per quel che devono fare domattina, diceva ancora… svegliarsi a mezzogiorno e andare a tirare la pensione…

Brigadiere, era l’ultimo pezzo della serata. Era l’ultima serata della fiera. Era la Sagra d’Autunno. Può anche darsi che Fischio abbia alzato un po’ il volume, può anche darsi che lo abbia tirato un po’ in lungo, e allora? Ricordo che ho dato un’occhiata al mio orologio ed era un quarto dopo mezzanotte. Ma lo sa che neanche dieci anni fa nello Stand Giovani si ballava fino alle tre? Me lo racconta sempre mio fratello più grande… ma è vero che a quel tempo eravamo più forti, più organizzati…

Insomma quand’è arrivato quel tappetto, come si chiama, Prosperi Alcide, non ci volevamo credere. Senza dire beo questo tizio, avrà avuto un’ottantina d’anni, si mette davanti alla consolle di Fischio e gli stacca la spina.

Silenzio, di colpo – silenzio per modo di dire, perché in realtà si sentiva un Ump ta ta ump ta ta incessante. E poi la voce stridula dell’Alcide si mette a rovesciare insulti su Fischio, sul tono di: drogato di merda, hai visto che ora è? va a lavorare, non ti vergogni, sei la disgrazia di tua madre e tua nonna.

Brigadiere è vero, a quel punto Fischio l’ha toccato.

Può persino darsi che lo abbia spintonato un po’. Ma è stato il gesto di un attimo, e poi il Prosperi lo abbiamo aiutato in tre a rimettersi in piedi, e ci siamo assicurati che stesse bene prima di lasciarlo andar via.

Ecco, brigadiere, il fatto – la provocazione, come dice lei – è tutta qui. Chi se lo immaginava che il Prosperi se ne sarebbe tornato di lì a cinque minuti, con un po’ di amici suoi, un’ottantina? Tutti armati di stampelle e cagnole? Dai settantenni ai centenari c’erano tutti i signori dello Spazio Ricreativo Terza Età, e secondo me si erano messi d’accordo prima. Io ho visto anche volare delle bocce, brigadiere, in particolare ne ho vista una che aveva preso la mia testa per il boccino. Venivano da tutte le parti, eravamo circondati. L’ultima cosa che ho visto è stata Fischio cadere sotto i colpi mentre cercava di difendere le casse, che erano proprio sue, se le portava da casa. Poi ho chiuso gli occhi e non ho più voluto veder niente. Ma non potevo fare a meno di sentire quel maledetto Ump ta ta, Ump ta ta, che scandisce i tre quarti in eterno.

*******


"Toh, professore", commentò l'algida Verola, "sei tornato al tuo cavallo di battaglia: le stragi! Ammetto tuttavia che non mi piacciono più come un tempo; i miei gusti variano evidentemente secondo il capriccio della stagione".
"Mia signora, anche stavolta ho fatto quel che ho potuto. Se vuole eliminarmi, non ho nessuna obiezione, tanto più che avverto sempre più un certo languore nel basso v..."
"Elimina piuttosto me, mia signora", lo interruppe allora don Tinto. "Ho tremiti e sudori freddi ed è comunque più prudente per voi due privarvi della mia presenza".
"E dove andresti, pretonzolo? Giù dabbasso a evangelizzare i lupi? Resta qui, non c'è più uscita".
"Mia signora, ho dunque vinto?"
"Se la cosa ti fa star meglio".
"Molto meglio, mia Signora", rispose don Tinto, e sorridendo spirò.




******* FINE DEL QUINTO TURNO *******




"L'abbiamo fregato", disse allora Verola al professore, "in realtà hai vinto tu".
"Non ci contavo. E adesso?"
"E adesso prova a immaginare. Ce la fai a spostare Don Tinto almeno in corridoio? Mi snerva tenermi un cadavere nell'alcova".
"Mia signora no, mi spiace, le forze mi mancano".
"Va bene, cerchiamo almeno di farlo cadere giù... ecco. Uff! Povero prete. Alla fine non ho mica capito se credeva in Dio o no".
"Credo che non si ponesse più il problema da un pezzo".
"E tu, professore?"
"Io cosa?"
"Tu Dio come lo immagini?"
"Mia signora, a questo punto più che sforzarsi di immaginare, non ci resta che avere un po' di pazienza".
"La pazienza, già. Non è tra le mie virtù".
"Lo so, mia signora".
"Ma credo di poter aspettare dignitosamente ancora un poco, se mi racconti un'ultima storia".
"Un'altra storia?"
"Siccome hai vinto la competizione, me la devi".
"Non ho più storie, mia Signora".
"Fingi d'essere Don Tinto. Raccontamene una delle sue, una storia su Dio".
Comments (1)

Karma 740

Permalink
(2011)

“Quindi adesso a chi tocca? Tortora, Trani, Turoldo...”
“Mi scusi, io sono Tinto”.
“Tinto, mi lasci guardare, Tinto... avevamo appuntamento un'ora fa”.
“Sì, ecco, io... ero uscito a... a prendere una boccata d'aria, perché qui... non si respira, davvero, stavo per svenire”.
“Vabene vabene vabene, se Tortora accetta di aspettare... Ma c'è Tortora?”
“Credo sia il signore che è svenuto davvero, lo hanno portato via poco fa”.
“Meglio così. Si accomodi”.
“Certo che fa caldo qui”.
“Non me lo dica, non me lo dica. Ha con sé i documenti? Codice fiscale?”
“TNTDVD73H11HGKJFG fjhkjh lk jj dij fsaokekelleterre678”
“Codice Ibann?”
“OT709834750943446'549'65987'98'97987098760980989809483098043085094860594ì743'097ì063898u'9'29046895i6498690509ì'098098098'0ì0000000000000000000459384790578'60589890'0”
“Numero di Carta di Credito?”
“76896”.
“Pin della Carta di Credito?”
“...”
“Ahahah, stavo scherzando, ci stava per cascare eh?”
“Quanti abboccano?”
“Sempre meno, ma ne vale comunque la pena. Codice meccanografico?”
“Domodossola Livorno Cagliari Domodossola Domodossola Domodossola Pisa Milano Empoli Domodossola Domodossola Arezzo Frosinone Gaeta Domodossola Domodossola Belluno Klagenfurt Novi Ligure Piazza Al Serchio Altolà Madonna dell'Oppio...”
“Basta così. Peccati da dichiarare?”
“Mah, le solite cose: non ho santificato le feste, non ho meritato la fiducia dei miei assistiti, non ho ricambiato l'affetto inesauribile dei miei genitori, ho tradito la mia vocazione in miliardi di minuscoli modi e poi...”
“Sì, sì, ma ha portato le notule?”
“Ha ragione, mi scusi, è il caldo. Dunque... qui c'è una vecchia notifica di violazione del terzo comandamento”.
“Questo al massimo sarebbe il sesto comandamento. Lei ha commesso atti impuri”.
“Atti impuri? Io? Ma se non mi ricordo nemmeno come...”
“Sullo scontrino c'è scritto 2004”.
“Aaaaah, sì, il 2004, fu un estate difficile, poi mi ero totalmente dimenticato e...”
“La gente come lei mi fa uscire di matto”.
“Mi scusi”.
“Cioè, ha idea di che mora le faranno pagare per un minuscolo atto impuro del 2004?”
“Non ho idea, davvero”.
“Ma la gente non potrebbe essere più attenta? Dico, cosa ci vuole? Commette un peccato, le rilasciano la ricevuta, lei appena a casa la archivia in un cassetto... ma è chiedere troppo?”
“Io non so gli altri, ma io... forse non ho abbastanza cassetti in casa”.
“È quel che dicono tutti. Sa cosa le rispondo io? Balle. Siete tutti convinti di avere miliardi di peccati da dichiarare”.
“In effetti...”
“Quando alla fine sono le solite due o tre cose tutti gli anni, sa cos'è questa? Superbia. Settimo vizio capitale. La paga lei l'aliquota sul settimo vizio capitale?”
“Di solito no”.
“Forse sarebbe il caso”.
“Se lo dice lei”.
“Vabene vabene. Ha delle esenzioni?”
“Un bonifico per l'onlus ex bambini ciechi...”
“Buono”.
“E poi un contributo al canile municipale”.
“Questo non lo passiamo, mi dispiace”.
“Ma pensavo di fare del bene”.
“Noi contiamo solo il bene che si fa agli esseri umani. No cani. Tutti gli anni ve la spiego, questa cosa”.
“Ma non è giusto. Secondo me...”
“Senta, è inutile che mi spieghi l'universo secondo lei. Io sono solo quello che riempie i moduli, lo vede?”
“Mi dispiace. È che con questo caldo...”
“Non lo dica a me. Non lo dica a me. È tutto? Sicuro di non aver fatto nient'altro di buono?”
“Mi sono fermato spesso nel mio luogo di lavoro, dopo l'orario”.
“Quella non è bontà, è lavoro in nero”.
“Ma non per i soldi... l'ho fatto per risolvere dei problemi di cui mi sarei potuto fregare, invece sono rimasto lì, ho aiutato i miei colleghi, credo di aver fatto del bene...”
“Lei si crede importante e insostituibile. È convinto che senza di lei i suoi colleghi non sappiano risolvere un problema. Direi che a questo punto l'aliquota sulla superbia scatta automatica”.
“Ma avevo le migliori intenzioni...”
“Sì, sì, dite tutti così. Che caldo, Signore...”.
“È difficile fare del bene”.
“La cosa più difficile al mondo. Dunque, è tutto?”
“Tutto, sì”.
“Molto bene, allora, lei deve all'Ufficio del Giudizio trentacinque punti karma”.
“Così tanti?”
“Eh, arriva con una pendenza del 2004, cosa pretende?”
“Ma trentacinque punti... cosa mi aspetta?”
“Dunque, mi faccia vedere... noi abbiamo già cominciato a farle i perdere i capelli, direi da tre anni...”
“Da due”.
“Sì, beh, però a questo punto dobbiamo recuperare un'altra decina di punti, non resta che accelerare il passaggio alla calvizie completa”.
“La prego, mi lasci ancora stempiato per un anno. Non voglio diventare come quei quarantenni che si rasano”.
“Eh, la fa facile lei. Dove li prendiamo trentacinque punti? Col fegato come sta messo?
“È un po' grasso”.
“Senta, mi sembra di ricordare che qualche anno fa le avevamo assegnato una dermatite rara”.
“Atipica. Poi c'è stato il condono”.
“Ecco, ricominciamo progressivamente con la dermatite atipica, e dieci punti li abbiamo fatti fuori. Poi, visto che si sente così giovanile, che ne dice di una bella forfora?”
“Forfora?”
“In dodici mesi ci recupera cinque punti, che ne pensa?”
-Sigh- Vada per la forfora”.
“E poi ci sono i denti”.
“La prego, i denti no”.
“Senta, allora me lo dica lei da dove prendere altri venti punti. La colecisti ce l'ha?”
“Me l'avete presa due anni fa. Però ho ancora l'appendice”.
“L'appendice, che tenerezza. Non conta nulla l'appendice, come i denti del giudizio. Qui ci vuole una bella carie, glielo dico subito, una capsula in un molare”.
“Li ho finiti”.
“Va bene, mi dica lei cosa vuole! Calcoli renali? Alitosi? Paranoia? Faccia lei. Abbiamo una ventina di punti da recuperare”.
“Non è possibile una dilazione?”
“Un modo c'è. È un pacchetto lancio che stiamo offrendo negli ultimi tempi. Non paghi nulla per cinque anni”.
“E poi?”
“Ischemia cerebrale, invalidità semipermanente”.
“No, non credo che sia il caso, no. Non... non potrebbe aumentarmi la forfora?”
“Più di così? Magari vorrebbe anche qualche brufoletto?”
“Eh”.
“Senta, bisogna che se ne faccia una ragione. Lei va per i quaranta. Questo non è l'ufficio della fatina del dentino, questo è l'ufficio della dichiarazione dei peccati. L'acne giovanile dei suoi diciottanni non tornerà più".
"Mai più"..
"Al massimo se vuole un herpes”.
“No, non è proprio la stessa cosa”.
“Va bene, sa cosa le dico? Alziamo il livello di tolleranza alimentare”.
“Ma l'abbiamo già alzato l'anno scorso, ormai non mangio più latticini...”
“Perfetto, da qui in poi astensione completa”.
“Quanti punti karma fa?”
“Sette”.
“Auff”.
“Lei è miope? Potremmo abbassare le diottrie”.
“La forfora, l'intolleranza alimentare, gli occhiali più spessi...”
“Senta, noi qui riempiamo solo i moduli con i dati che ci portate voi. È colpa nostra se lei fa oggettivamente una vita di merda?”
“Con tutti gli stronzi che si vedono in giro”.
“Niente turpiloquio”.
“Coi loro denti bianchi, la loro pressione sanguigna nella norma, i loro capelli folti...”
“Senta, è il karma. Ognuno ha il suo. Non deve guardare agli altri. Ognuno se la vede col suo proprio destino”.
“E tutti gli evasori dove li mettiamo?”
“Si reincarneranno in commercialisti. Ma lei deve preoccuparsi di sé. Senta. Un po' di reumatismi?”
“Reumatismi? Mai avuti”.
“Ecco, vede? Un'esperienza nuova”.
“Ma sono dolorosi”.
“Un po' fastidiosi, ma poi ci si affeziona. È come un sesto senso, sentirà la bassa pressione, l'anticiclone delle Azzorre”.
“E vada per i reumatismi”.
“Così la voglio. Positivo e propositivo. Mancano ancora cinque punti. Si sbizzarrisca”.
“Non so...”
“Una disfunzione erettile!”
“Ma no... Senta, la tristezza conta?”
“La tristezza... nel senso di malinconia, no”.
“Maledizione”.
“Invece nel senso di crisi depressiva, beh, di punti ne facciamo otto”.
“Ho sforato?”
“Sì, ma li recupera sulla dichiarazione dell'anno prossimo, non si preoccupi. Allora stampo?”
“Stampi, stampi”.
“Vuole lasciare l'otto per mille allo Stato Italiano?”
“No, ai Paesi Bassi”.
“Ecco qui. Una firma sul modulo...”
“Aspetti, aspetti un attimo. Mi stavo dimenticando...”
“Ecco, lo sapevo. La buona azione che vi viene in mente all'ultimo momento. Dio quanto vi odio”.
“Io... ho regalato un ombrello a un'anziana signora, tre mesi fa. Conta?”
“Eh, dipende. Stava piovendo?”
“Un acquazzone improvviso, lei non riusciva ad andare avanti, e così io...”
“Si è fatto fare la ricevuta?”
“Sì, ma credo di averla a casa. Mi scusi...”
“Non è possibile”.
“Mi scusi davvero, io... a volte mi dimentico delle cose buone che faccio”.
“Ma è rimasto seduto lì davanti per tre ore. Non poteva farselo venire in mente prima?”.
“È che non riesco a pensare qui dentro. Fa caldo”.
“Lo dice a me?”
“Non si respira. Sembra di stare nell'anticamera dell'inferno”.
“Sembra?”

FINE

*******


"Se non altro stasera l'hai fatta breve", commentò la triste Verola. "Ma davvero mi domando com'è stato possibile ritrovarmi in finale un pretonzolo come te.
"Signora", replicò Don Tinto, ha avuto una ventina di giorni per eliminarmi. Se non c'è riuscita deve biasimare soltanto sé stessa. Peraltro, non è che io abbia mai desiderato di restare l'ultimo uomo sulla terra".
"Non siamo gli ultimi uomini sulla terra", obiettò il prof. Esso. "Non è che se manca la rete, nessun cellulare prende più campo, e non si captano più emittenti nemmeno a onde lunghe, uno deve per forza dedurre che l'umanità si sia estinta".
"Inutile discuterne", tagliò corto Verola, che doveva andare in bagno. "Cerchiamo almeno noi di finire quello che avevamo iniziato, come conviene agli umani, anche ove fossimo gli ultimi. Professore, hai già pronto il tuo racconto?"
"Certo, mia signora, l'ho scritto nella veglia di ieri".
"Allora me lo racconterai più tardi stanotte, nell'ora in cui nella vallata i lupi ululano la loro indigestione di carne frolla, impedendoci di dormire".
Comments (2)

In bagno coi Maestri

Permalink
(2010)
C'è da dire che la sessualità è un mistero – la nostra: figurati quella degli altri. Ognuno ha la sua storia e non ve la viene certo a dire. D'altro canto a chi interesserebbe. (A Kinsey interessava, ma gli sospesero i finanziamenti).
Del resto, giudicate voi. Per tutti i lunghi anni del seminario e dell'università, mai Don Tinto si era masturbato o ne aveva anche solo sentito l'urgenza. In questa che a voi lettori potrà sembrare una bizzarria statistica (ma quale statistica? ne esistono di attendibili?) e che i suoi coetanei avrebbero ritenuto una grave menomazione, sin dalla prima pubertà Don Tinto aveva creduto di scorgere un dono del Signore, un segno evidente della Sua chiamata. Pur sensibile alla bellezza dei corpi (anzi all'università aveva optato per l'indirizzo storico-artistico), Don Tinto sembrava riuscire a goderne a distanza, senza cadere nei turbamenti delle passioni carnali. Sporadicamente, è vero, in qualche sogno sperimentava un'estasi, una specie di trasporto – di cui al risveglio la biancheria recava tracce imbarazzanti. A sedici anni il confessore gli aveva spiegato di che si trattava, del retaggio dell'inevitabile debolezza della carne – ma non era peccato, tecnicamente. Non nella fase onirica. A meno che non avesse sognato... angeli? Vestiti? Maschi? Femmine? Proprio non riesci a rammentare, figliolo?

“Padre, non mi prenda in giro, ma...”
“Ci mancherebbe altro”.
“Mi sembrava di stare nell'assunzione del Correggio”.
“Un quadro, insomma”.
“Un affresco del Cinquecento. La basilica di Parma”.
“Ah, quindi angeli nudi, insomma".
"Con molti panneggi".
"Bene. Bambini?"
"Eh?"
"Gli angeli del sogno, sono bambini?"
"No, direi adulti".
“Meglio ancora. Tre rosari alla Madonna della Neve”.
“Quindi ho peccato, Padre!”
“No. Però un rosario non può far male. Vai, figliolo, e non... non sognare troppo, eh?”

Centocinquantemilatrecentosettantadue rosari più tardi, Don Tinto (ora cappellano di buone speranze, in una grande parrocchia metropolitana) ebbe finalmente qualcosa di piccante da confessare al suo padre sprirituale.C'era una ragazza castana di dodici anni, nel coro, che non lo faceva dormire. Era forse il modo sfrontato e insieme dolcissimo con cui attaccava gli acuti. Don Tinto era stravolto. Non riusciva a pensare che a lei. Non che ci fosse molto da pensare; allora diciamo che non riusciva a pensare ad altro che non fosse il suo non riuscire a pensare che a lei, e chissà, forse in queste vertigini consiste l'amore? La pubertà, come si vede, stava arrivando in ritardo, tram sferragliante che rischiava di travolgerlo. Mai avrebbe toccato la fanciulla, mai, anche solo presa sottobraccio, o afferrata alle spalle per salvarla da uno strapiombo come gli era capitato una volta di sognare, ma quindi come avrebbe potuto accompagnarla nel pellegrinaggio a Roma con la classe dei cresimandi? Mentre ascoltava, il confessore censurò in sé stesso una certa torva soddisfazione. Il fatto è che se lo aspettava. Tutti quei sogni di apoteosi angeliche da qualche parte dovevano pure andare a parare, bastava aver letto Freud – e poi la carne è debole, Cristo Santo, anche quella dei vitelli da latte come Don Tinto. Fu brusco con lui, come si faceva ai vecchi tempi:
“Ti tocchi?”
“Eh?”
“Ti sto chiedendo se ti masturbi, figliolo”.
“Ma no, padre”.
“Allora forse è meglio cominciare”.
“Ma padre!”
“Che padre e padre. Senti un po'. Tu sei convinto di essere sul precipizio di chissà quale perdizione. E mi sta bene. Significa che dai ancora molto peso ai tuoi sentimenti”.
“Ma...”
“Io però ho sessant'anni ormai, confesso i seminaristi da trenta, e non hai idea di quante storie del genere ho già sentito. Per cui scusami se taglierò corto. Quanti anni hai?”
“Ventiquattro”.
“È tempo che cominci a masturbarti con regolarità”.
“Ma...”
“La sera dei giorni dispari, dopo compieta. Salta la domenica. Vedrai che i sogni poi si calmano”.
“Ma io...”
“Non sai come si fa. Eh, beh, certo. Dio mio, tutto ti devo spiegare? Con la mano destra...”
“Padre, la meccanica più o meno la conosco”.
“Oh, meno male”.
“Ma non mi viene niente da pensare...”
“Hm. Dormi ancora in San Filippo, no? Hai accesso alla biblioteca di Don Bruno?”
“Padre, sì”.
“La pornografia è nel terzo stipetto a destra, la chiave è nel trofeo della corale del 1974. E adesso va'”.
“Padre, non mi assolve?”
“Peccati non ne hai fatti, per adesso. Adesso dovrai cominciare a farne di molto piccoli, con regolarità, in modo da evitare quelli grandi. Se tutto va bene arrivi alla mia età senza avere niente di veramente brutto di cui pentirti”.
“Speravo che non sarebbe mai successo”.
“Ma certo, perché avresti dovuto avere un corpo, come noialtri? Dei desideri? Un pisello, addirittura? Perché mai Nostro Signore avrebbe dovuto farti uomo come noi? Non avrebbe potuto farti angelo? Ecco il tuo vero peccato. Sai qual è".
“La superbia, Padre”.
“Ascolta. Per quanto ne so, tu sei un bravo ragazzo. Non toccheresti una bambina neppure se ti costringessero. Il solo fatto che tu sia venuto a raccontarmi questa storia... però potrei sbagliarmi. Mi sono sbagliato altre volte”.
“Sbagliato?”
“Su altre persone. Ma devi sapere una cosa. Mettiamo che un giorno ti succeda. Mettiamo che un giorno ti capiti veramente di toccare una bambina”.
“Dio non voglia...”
“Dio, sempre questo Dio. Dio ci lascia liberi. Tu verresti a dirmelo?”
“Penso di sì”.
“E io cosa dovrei fare?”
“Dovrebbe... non so, immagino che non mi assolverebbe”.
“Esatto”.
“E mi denuncerebbe alle autorità ecclesiastiche e... a quelle secolari”.
“Ai carabinieri, dici? No, questo no”.
“E perché no?”
“C'è una direttiva molto precisa a riguardo, figliolo. Se ti denuncio rischio la scomunica”.
“Dunque la Chiesa... mi proteggerebbe?”
“Ora pecchi di stupidità. La Chiesa non protegge te. La Chiesa protegge sé stessa. Se tu infangherai il tuo abito, la Chiesa si tiene il diritto di lavarlo in casa propria. Sappiamo lavare come chiunque altro, noi. Meglio di molti altri, devo dire. Ora sai che, se un giorno tu peccassi, puoi venire da noi, da me, sapendo che io non chiamerò i carabinieri. Ti prenderò a ceffoni, questo sì. Lungamente”.
“E giustamente”.
“Ti spezzerò tutta una serie di piccole ossicine tignose che conosco io. Farò quanto mi è possibile per farti trasferire nella parrocchia dell'Africa nera frequentata dai più sifilitici dei sodomiti, ma non ti denuncerò. È giusto che tu lo sappia. E adesso vai. Che giorno è oggi?”
“Mercoledì”.
“Giorno dispari, ottimo. Buona meditazione”.

Una tragicommedia, la prima 'meditazione' di Don Tinto. All'inizio l'impresa sembrava veramente disperata, i polverosi numeri di Le Ore ritrovati nello stipetto rivelandosi quanto mai inadatti alla bisogna. Queste signorine, pensava Don Tinto, oltre a essere così desolantemente diverse dall'oggetto dei miei desideri, sono ormai tutte nonne; tranne quelle che senz'altro sono già passate a miglior vita; ora io devo credere a un Dio misericordioso che avrà perdonato i loro vizi di gioventù e le avrà portate in cielo; dal quale cielo mi possono vedere mentre tento di eccitarmi con le immagini dei loro decrepiti peccati, ormai rimessi, eppure ancora in circolo. Preso da siffatti pensieri, Don Tinto era tanto lontano dall'erezione quanto lo siete voi, miei intristiti ascoltatoti, in questo esatto momento. E tuttavia il padre spirituale era stato molto chiaro; ed era uomo di provata saggezza, a cui Don Tinto avrebbe ciecamente obbedito anche se non glielo avesse imposto il voto, appunto, di obbedienza. Di fronte a Don Tinto si spalancava la voragine, non già del peccato (quello sembrava essersi stranamente ridimensionato) ma della conoscenza di sé: che uomo era, se non riusciva a peccare nemmeno volendo? È santo l'uomo che tra il bene e il male sceglie la prima strada; ma è santo proprio perché sceglie, non perché un qualche accidente di natura gli ha impedito l'accesso alla seconda.

Quando alla fine il volume di Caravaggio dei Maestri del Colore riuscì dove le Ore avevano fallito, Don Tinto fu preso da uno disgusto di sé che mai nella sua vita aveva sperimentato. La sola idea di aver potuto nutrire pensieri per una ragazzina – lui? Era successo veramente? Erano solo fantasie, sogni, poi si sa com'è la vita nelle parrocchie, ci si annoia, si ingigantiscono le cose, ci si inventano peccati anche solo per avere qualcosa da confessare. Eppure, sotto tutto quel disgusto, covava una strana, secca soddisfazione. Dunque anch'egli era un uomo, in grado di disperdere il suo seme come chiunque altro. Aveva potere sul suo corpo; un potere che non avrebbe mai esercitato, ma ora era suo. Non era più un ragazzo in balia dei sogni. Quarantotto ore dopo, la prima sensazione di disgusto era scemata; ma la soddisfazione per la conquista del suo corpo ruotava ancora lì, vorticosa intorno al suo cuore. Don Tinto non covava più nessun assurdo pensiero per la moretta del coro. Si era dimenticato del tutto di lei; ma non del solenne impegno preso col Padre. All'ora prestabilita di venerdì, detta compieta, rientrò in bagno coi Maestri del Colore.

FINE
*******

"Finisce così?", disse ancora la stanca Verola. "Molto prima che diventi interessante, direi".
"Mia signora", concesse Don Tinto, "avrei potuto allungarlo ulteriormente, ma qui è dove ho cominciato a sentire che mi stavo scuoiando vivo. I racconti è giusto farli solo con i pezzi di pelle che sono già venuti via".
"Sento nelle tue parole una velenosa allusione al tuo rivale Taddei e al suo prolisso testamento spirituale. Ma lui è pur stato l'unico, in questo turno dedicato all'amor carnale, a non essersi fermato a sogni e masturbazioni, e meriterebbe meno di voialtri due d'essere eliminato. Ma qualcuno lo ha visto?"
"Mia signora, io l'ho sentito dire che andava al bagno. Sei ore fa".
"Poveretto. Va bene, direi che perde il turno per abbandono di campo. È un peccato però. Siete rimasti voi due idealisti che non fareste male a una mosca. Nessuno m'intratterrà più con bozzetti sociali, niente più racconti ossessionati dall'economia e dalla mano invisibile del mercato..."
"Mia signora, se è di questi racconti che avverte la necessità, possiamo provare a raccontargliene noi due. Propongo che l'economia sia il tema del prossimo turno".
"Ah, lo proponi, eh? Don Tinto, vecchia volpe, immagino che tu abbia già il colpo in canna. E sia. Comincerai tu. Ora, se non ti dispiace, mettiti il solito bavaglio davanti al muso, e va' a cercare il cadavere del povero Taddei nei bagni di servizio al primo piano. La vanga è sempre lì dove l'hai appoggiata, direi. Tu professore invece monterai la guardia, d'accordo?"
"A che ora vi sveglierò, mia signora?"
"Qualsiasi ora andrà benissimo, ma qualora non dovessimo svegliarci, non insistere troppo. Buonanotte".

******* FINE DEL QUARTO TURNO *******
Comments

L'amore gratis (II)

Permalink
(Continua da qui)

Cercò di vivere, che è la scelta che facciamo più o meno tutti. L'essenziale è trovare qualche distrazione che ci impedisca di arrivare puntuali all'appuntamento con quell'unica cosa di cui moriremmo volentieri. Si cercò qualche altro vizio, per esempio si rimise ad andare allo stadio come da ragazzino. Prese molti chili. Poi decise che li avrebbe persi e si fece venire la mania per la palestra. Si possono passare molti anni così, girando intorno: c'è un'enorme saggezza in quel modo di dire, “ingannare il tempo”. Fece anche qualche ultimo tentativo di sistemarsi, ma forse era troppo tardi. Le donne che riusciva ancora a incontrare erano accecate dalla paura di restare sole e fingevano con troppa ostinazione di non vedere i difetti che Sergio sapeva di avere. Una in particolare era così determinata a sistemarsi con lui che quasi lo convinse. Si misero persino a cercar casa. Entrambi però avevano passato da un pezzo quell'età in cui mettersi insieme significa crescere assieme. Erano ormai dipendenti di cento piccole abitudini maturate nei loro trent'anni di solitudine, la soap a mezzogiorno, la sigaretta dopo cena, e la convivenza sarebbe stata, Sergio lo capiva, un'infinita teoria di compromessi e armistizi, un equilibrio estenuante di pesi e contrappesi, che forse non li avrebbe uccisi, ma avrebbe fatto passare a entrambi venti, trent'anni di inferno. Sergio veniva da una famiglia così e non sentiva nessun vero impulso a portare avanti la fiaccola dell'odio domestico, delle cene in silenzio, dei pugni al muro, delle vite passate a dormire di fianco a un Nemico che russa e suda. Non voleva avere un bambino per raccontargli bugie, per ripetergli che ci sono cose che non si possono comprare, quando non è vero: tutto si può comprare, al massimo non c'è abbastanza denaro per farlo, ma il denaro è appunto l'unità di misura di tutto ciò che l'uomo può desiderare: le cose insomma stavano così e Sergio lo aveva sempre saputo, ma trovò la forza per dirlo forte e chiaro a sé stesso solo quella notte in cui, dopo aver chiesto ufficialmente alla sua fidanzata di sposarlo, Sergio la riaccompagnò a casa e poi scelse la via più lunga per tornare alla sua, guidando in tondo per ore attraverso quartieri familiari e sconosciuti, su una rotta molto più aggrovigliata del suo ragionamento, finché l'auto non si decise a condurlo sulla circonvallazione.

Lì era tutto cambiato: una rivoluzione antropologica senza precedenti di cui Sergio fu spettatore (pagante). Tossiche e professioniste erano sparite: al loro posto era arrivato, in blocco, il Terzo Mondo, causando un'inflazione di sesso inimmaginabile fino a pochi anni prima. In tasca era convinto di avere una cifra appena sufficiente a permettergli una sveltina e quattro chiacchiere vaghe e consolatorie; scoprì invece di essere un gran signore in grado di concedersi notti intere con regine della savana che, certo, non erano in grado di chiacchierare nella sua lingua, ma lo avrebbero servito e riverito in tutto il resto. Sergio non si era mai sentito ricco in vita sua, non aveva neanche mai provato a immaginare come ci si potesse sentire di fronte a qualcuno che si inginocchia perché glielo chiedi, e per qualche lira in più si schiaccerebbe a terra. Come reagirebbe un ex alcolista se scoprisse che sotto casa vendono liquori esotici a un euro il litro? La sua ricaduta fu tombale: ci mise una settimana a farsi rendere l'anello di fidanzamento, un mese a spenderlo. Niente più stadio o palestra, basta. Ora si trattava di lavorare e spendere, nient'altro che lavorare pensando al momento in cui avrebbe speso, e poi spendere senza pensare più a niente. Sarebbe senz'altro morto di qualche malattia orribile ma non gli importava, le alternative a sua disposizione le aveva già sondate e non gli interessavano.

Non morì. A volte è la morte che non si fa trovare all'appuntamento, si vede che ha altri progetti. Dopo qualche anno di intenso corteggiamento, Sergio sentì che la furia rallentava, sostituita da una pulsione più fredda: da ghiottone stava diventando un gourmet. Era molto più attento a dove buttava i soldi, al rapporto tra qualità e prezzo, che da un certo punto in poi divenne parte integrante del piacere di andare a puttane (ormai tutti in Italia le chiamavano solo così, “puttane”: per l'unificazione linguistica c'erano volute le invasioni barbariche). Divenne davvero un antropologo, per lo meno trent'anni prima uno studioso avrebbe dovuto viaggiare il periplo delle terre conosciute per scoprire le banali nozioni che mise insieme lui. Per esempio: non importa quanto apparissero toniche e fiere, le africane avevano sempre paura di tutto. Della polizia, della madame, della magia nera, del medico bianco, del cliente ubriaco, del cliente che sembra calmo e quindi è uno psicopatico, dell'Europa che è un posto da matti. Col tempo potevano smettere di aver paura di un cliente affezionato, ma di solito a quel punto cominciano a disprezzarlo. Le slave invece avevano ambizioni; forse perché bianche erano convinte che non avrebbero fatto sempre lo stesso lavoro e più spesso di altre cercavano il fortunato o il pollo disponibile a riscattarle; ma miravano quasi sempre un po' più in alto di Sergio, che non le biasimava certo per questo. Le cinesi (ma sarebbero arrivate un bel po' più tardi) arrivavano da un altro mondo e ti trattavano come un oggetto di un altro mondo, di cui magari avevano letto su un manuale di istruzioni con poco testo e molte figure. Le sudamericane erano intense e leggere, il sesso per loro era soprattutto danza, a volte sfrenata, a volte pura coreografia. Vi erano poi altre categorie trasversali: a seconda di cosa stavano pensando le puttane mentre stavano con lui, Sergio le divideva in coatte, che facevano quel mestiere soltanto perché costrette, odiando sé stesse e i clienti; lavoratrici, che anche nei momenti più abietti stavano sempre pensando ai soldi che avrebbero inviato ai genitori lontani, o al figlio che stavano mandando alle elementari del quartiere, o al bar che avrebbero aperto o alla casa che avrebbero comprato; e infine tossiche: quelle esistevano ancora e sarebbero esistite sempre: non pensavano che alla loro morte personale, mentre aiutavano Sergio a morire.

Quanto a lui, non aveva vere preferenze: gli piaceva variare i sapori, improvvisare, sperimentare: poteva passare una notte intera a chiacchierare con una vecchia ballerina brasiliana e il giorno dopo farsi manipolare per pochi minuti da una orientale che non spiccicava una parola. Col tempo si costruì una specie di etica minima di sopravvivenza: niente stradali (troppo scomode), niente rapporti scoperti (i rischi restavano, ma la paranoia calava), niente amiche (mai tornare dopo la terza volta). Smise abbastanza presto di frequentare le cosiddette 'coatte', anche se all'inizio la sensazione di fare violenza su di loro lo aveva stuzzicato; ma senza essere mai stato un uomo buono, Sergio non era mai nemmeno stato un violento; la pulsione a fare male ad altri che a sé non che una distrazione di cui col tempo si liberò, così come pensava di essersi liberato del fantasma dell'amore gratis.

Fino a quella sera che non bussò alla porta di quel caseggiato di Santa Margherita, attirato dalla foto di un culetto sodo che aveva visto in uno dei primi siti internet di annunci. Sapeva già che raramente la foto di un culo ha a che vedere col culo effettivo, come del resto succede con le immagini del cibo sulle scatole dei surgelati. Gli piaceva però l'idea che quella ragazza avesse deciso di mostrare il culo e non la faccia: denotava una certa timidezza, magari era una cameriera che arrotondava. Più probabilmente il viso non era un granché, e anche questo andava benissimo per Sergio: col tempo aveva imparato a non fidarsi dei bei faccini, all'atto pratico non restituivano le soddisfazioni di un volto bruttino ma contratto dallo sforzo, dalla concentrazione a far bene. Che la ragazza non fosse un fiore lo confermò la penombra in cui lo ricevette: i due pattuirono rapidamente quello che ritenevano il giusto per un'ora di prestazione, ma Sergio forse era stanco o troppo carico, insomma risolse tutto in cinque minuti. Quando succedevano queste cose – sempre più di rado col tempo – non se la prendeva più di tanto: amava attardarsi a chiacchierare del più e del meno; a questo punto della vita del resto a parte le prostitute non conosceva più molta gente disponibile ad ascoltarlo
.
Fu proprio mentre si lamentava di un guaio successo in officina, o si abbandonava alla sua massima speculazione filosofica (“perché scopare costa così tanto rispetto al mangiare? Sul serio una sveltina vale come un pranzo di tre portate al ristorante? Quanta manodopera è servita per preparare quel pranzo?”), che la sconosciuta in penombra a cui era ancora vagamente abbracciato disse questa cosa che all'inizio lo stupì soltanto un poco:

“Posso baciarti?”

Il bacio, nella prostituzione, è una pratica piuttosto borderline. Molte professioniste non lo concedono, se non dietro l'esborso di un sovrappiù eccessivo che Sergio non riteneva quasi mai necessario. Perciò rispose alla domanda con l'allegria stupita del bambino a cui si offre un bicchiere di aranciata extra. Mentre si faceva baciare e ribaciava, Sergio si accorse che erano anni che non perdeva più tempo a fare questa cosa sciocca da ragazzini, che invece a ripensarci era potente, tanto che in pochi minuti si ritrovò a gestire una seconda erezione, evento che in quella fase della sua vita aveva del miracoloso. Fu insomma un'ora eroica, come non ne aveva passate da tempo: rincasando, esausto e felice, si ripromise di tornare la settimana successiva, cosa che faceva soltanto in casi straordinari sempre più rari. Si accorse poi l'indomani che stava contando i giorni. Quando finalmente arrivò il momento di ripresentarsi a quel portone (le tempie gli pulsavano come non gli succedeva da anni), di schiacciare un tasto dell'ascensore con una mano che gli tremava un poco, fu all'improvviso colto da un sospetto: forse quello era il suo giorno, forse stavolta la morte si sarebbe presentata all'appuntamento. Ma poi venne ad aprirgli la porta un'altra ragazza, che Sergio non aveva mai baciato.

“Ma tu non sei Gloria”.
“Certo che sono io, amore”.

Questa era una situazione classica, fin troppo nota a Sergio: una ragazza mette un annuncio, e se poi quella sera è impegnata lo passa a una collega. Non aveva senso prendersela tanto, e invece Sergio era mortalmente deluso e infuriato con sé stesso per non aver chiesto qualcosa di più. Non l'aveva nemmeno mai chiamata per nome: “Gloria” era quello che aveva letto sull'annuncio, ma più che un nome di persona era il marchio di un prodotto. Si rese conto che in tutta la sua vita aveva baciato davvero solamente una ragazza, e non sapeva come si chiamasse. Ma c'era di peggio: faceva fatica a ricordare il volto. Un po' bruttino, senz'altro, irregolare, ma non riusciva a ricordarsi quale irregolarità: un naso schiacciato? gli occhi non simmetrici? Meglio non perder neanche tempo con l'acconciatura dei capelli.

“Scusa, io sono venuto mercoledì scorso, c'era per caso una tua amica?”
“Ah, mercoledì... no, mercoledì non so chi ci fosse... dovrei chiedere”.

Il peggio che poteva capitargli: era finito in un puttanodromo, un appartamento preso in affitto da un pappa che ci manda ragazze in rotazione: e Sergio sapeva che le ragazze potevano essere cinque, dieci, cento. Poteva trattarsi di una piccola impresa a conduzione famigliare o di un racket con diramazioni in tutt'Italia, l'unico modo per capirlo era tornare lì tutte le settimane, forse tutte le sere, è la sola persona che mi abbia davvero baciato (pensò), la sola che mi abbia voluto baciare... ero lì al buio che dicevo cazzate e me lo ha chiesto!

Che idiota era stato. Una persona aveva avuto voglia di lui, e lui aveva reagito nell'unico modo che ormai conosceva: scopandola e riscopandola, come probabilmente avevano fatto mille altri. Avrebbe dovuto continuare a baciarla per tutta l'ora della prestazione pattuita. Avrebbe dovuto continuare a baciarla tutta la notte. Gratis. E invece era andato via senza nemmeno guardarla bene in faccia, senza nemmeno chiedere il suo nome. Però poteva ritrovarla. Era senz'altro da qualche parte, magari in quell'esatto momento chiedeva baci a un altro sconosciuto. Prima o poi sarebbe tornata lì. Doveva tornare lì. Sergio l'avrebbe conosciuta. Non si permise di fantasticare più in là di così, anche se per qualche istante la prospettiva di un bar sulla spiaggia e due marmocchi gli balenò davanti. Era quello il vero progetto che la morte aveva per lui? Tanto peggio, lui non aveva davvero scelta a questo punto. Sarebbe tornato in quella casa finché non l'avrebbe ritrovata.

“E allora amore cosa facciamo? Te ne vai? Non ti piaccio?”
“No, anzi. Resto, resto”.
Non era il caso di offendere una persona che stava lavorando. Anzi, aveva bisogno di coltivare dei contatti, ora che diventava un cliente fisso della casa.

Nei tre anni successivi divenne qualcosa di più di un cliente fisso. Ne impiegò meno di mezzo per realizzare l'entità dell'organizzazione che affittava l'appartamento: non un racket miliardario, fortunatamente, ma una turbolenta cooperativa di signore che venivano tutte dallo stesso lontano paesello, a volte con un figlio e più di rado con un marito inutile appresso; e ai padri e ai fratelli restati a casa raccontavano di fare le badanti. Alcune di loro di giorno lo facevano davvero, senza molto entusiasmo, ma la pratica di regolarizzazione fila molto più rapida se ti presenti spingendo una carrozzina. La cooperativa faceva capo a due o tre matriarche, una delle quali si chiamava davvero Gloria e aveva detto il suo vero nome a Sergio, la seconda volta che si era presentato.

Erano brave donne, un po' indurite dall'esperienza del mondo: Sergio non aveva nessuna difficoltà ad ammirarle per lo spirito di iniziativa con cui si erano tenute a galla, e loro cominciarono a provare riconoscenza per questa ammirazione: per gli altri italiani non erano che puttane, per i compaesani streghe che col loro nefasto esempio avevano portato alla perdizione una piccola truppa di cugine, sorelle, cognate (e intanto il paesello natale si arricchiva coi soldi delle rimesse, in giro cominciavano a vedersi automobili di una certa cilindrata). I loro uomini, arrivati col ricongiungimento famigliare, non erano riusciti a integrarsi altrettanto bene: trovarsi un lavoro sarebbe stato ridicolo, non c'era per loro in Italia nessun lavoro che fruttasse in un mese quello che le loro donne mettevano assieme in un fine settimana. In teoria dunque facevano i protettori, ma non è che ci fosse tanto da proteggere: l'appartamento era frequentato da tizi timidi come Sergio, che non creavano nessun problema alle ragazze, per cui non c'era necessità reale di nessun vigilante col coltello; non restava che appoggiare il culo in un bar poco lontano e mettersi a bere, col bel risultato di attirare l'attenzione delle forze dell'ordine che poi bisognava distrarre imponendo alle ultime ragazze arrivate un sacco di straordinari quasi sempre non pagati. In mezzo a tutto questo, l'appartamento era in pessimo stato: chi chiamare quando si rompe un tubo? Ovviamente i condomini rifiutavano di collaborare.

In mezzo a tutta questa ridda di litigi famigliari, irruzioni, corruzioni, tubi rotti, Sergio cominciò a divertirsi come non gli era mai successo in vita sua. Non vedeva l'ora di staccare dall'officina – e salutò addirittura con sollievo la cassa integrazione – per salire nell'appartamento con la valigia degli attrezzi. Oppure c'era da portare una ragazza dalla ginecologa, o a malattie infettive, ma dopo un po' anche dall'estetista, o al centro commerciale, o al cinema. Benché spesso gli affidassero le ragazze giovani, appena arrivate – o forse proprio per questo – Sergio le trattava con diffidenza. Avevano una luce negli occhi che prometteva male, i nastrini colorati della città ricca le distraevano dalle brutture del loro mestiere: pensavano ancora di vivere nel primo tempo di un film romantico che sarebbe finito bene. Di lì a poco, Sergio lo sapeva, avrebbero dovuto scegliere se diventare lavoratrici o tossiche: non gli piaceva troppo l'idea di essere lì mentre arrivavano al bivio, di essere l'uomo che le accompagnava. E poi erano snervanti, ci mettevano tre ore a far la spesa e riempivano il carrello di scemenze, che a Sergio toccava spingere.

Preferiva di gran lunga la compagnia delle matriarche. Con Gloria in particolare legò molto, era una donna molto intraprendente e decisa, e allo stesso tempo non aveva nessuna vergogna a chiedergli aiuto quando ne aveva bisogno. Ormai non scopava più molto: era in cassa integrazione dopotutto, e benché in quanto factotum della casa potesse contare sulla libera generosità delle operatrici, non se la sentiva di sollecitarla troppo. Capiva di amare quella casa che cascava a pezzi, quella strana famiglia di puttane nevrotiche, e di amarla gratis. O forse si era stancato del sesso, come ci si stanca di tutto, perfino di morire. Di sicuro ci pensava meno, una volta era il suo ultimo pensiero fisso prima di addormentarsi, ora no. L'unico chiodo che non riusciva a levarsi era l'ombra di quella ragazza che gli aveva chiesto di baciarlo. Nessun altro lo aveva fatto da lì in poi. Sergio aveva battuto tutte le piste, finché da qualche mezza ammissione di Gloria non aveva costruito questa verità: poteva trattarsi di una ragazza appena arrivata che dopo un breve periodo di prova se n'era ritornata al paesello. Evidentemente il bacio di Sergio non era riuscito a trattenerla: o forse la ragazza ci era rimasta male che dal rospo non fosse uscito subito un principe; insomma, se n'era andata, e a Sergio piaceva immaginarla certe notti su uno sfondo di cartolina, mentre trascinava per mano due marmocchi bruttini, ma pieni di vita. “Non ti sei persa un granché, sconosciuta”, diceva sottovoce; e ci piangeva un po'. Stava invecchiando.

In quel periodo Gloria e il suo marito inutile vennero alle mani, più volte; l'ultima toccò persino a Sergio dividerli, ma non fu difficile, l'uomo era fradicio. Lo avevano già avvisato di smetterla di molestare la Gloria, persino il maresciallo lo aveva preso in parte e gli aveva spiegato che sarebbero finiti nei guai tutti. Alla fine accettò un biglietto in business e una congrua liquidazione per tornare al paesello, dove erano già pronte le carte per il divorzio. Sergio aspettò una settimana e poi invitò Gloria a cena in un ristorante in centro. Non voleva chiederle di sposarla, ma voleva abituarsi all'idea che in un'altra sera del genere magari sarebbe successo. Gloria non seppe dirgli di no, era un buon uomo, forse l'unico italiano di cui era riuscita a fidarsi. La cena scivolò senza imbarazzi, del resto erano ormai abituati a chiacchierare con molta libertà, da buoni amici. A Sergio piacevano soprattutto gli aneddoti sui vecchi clienti come lui, i trucchi del mestiere eccetera. A un certo punto il discorso finì su quel classico tipo di cliente che dopo aver concluso, quando la lavoratrice è stanca e vorrebbe solo docciarsi, attacca a chiacchierare del più e del meno e va avanti per ore. Oh se ne conosceva Gloria, di tipi così! Insopportabili davvero, si pagassero uno psicanalista... e a quel punto, con un filo di panico nella voce, Sergio chiese come facesse di solito Gloria, a liberarsi di quei tipi lì.
“Cosa vuoi che faccia con quelli, c'è un solo modo per chiudergli la bocca. Mi metto a baciarli. Fa un po' senso, ma almeno...”
“Cioè, loro stanno parlando e tu... ti metti a baciarli?”
“No, di solito glielo chiedo”.
“Glielo chiedi”.
“Sì: posso baciarti? Non ce n'è uno che risponda di no, eh, eh”.
“Eh, immagino”, rispose Sergio: e mentre rispondeva così, capì che stava morendo, dentro, nell'unico luogo dove aveva vissuto davvero; e che tutto ciò che sarebbe sopravvissuto da quella sera in poi, fuori dallo spazio di questo racconto, non era che un guscio senza importanza.

FINE

*******

“Sarò franca, mio buon Taddei”, rispose Verola quando la svegliarono. “Mi sono appisolata quando il tuo protagonista è partito per il militare. Tutte quelle fosse che abbiamo scavato stamane devono avermi un poco provato. Dimmi solo: l'ha trovato, il tuo Sergio, l'amore gratis?”
“Troppo tardi, mia signora”.
“Lo immaginavo. Va bene, domani tocca al prete”.
Comments (1)

L'amore gratis (I)

Permalink
(2011)
Sergino, gli avevano detto sin da piccolo, i soldi sono una gran cosa, ma non ci puoi comprare tutto: la salute, per esempio, non si compra. Poi però la cara zia era morta mentre la portavano all'ospedale e Sergio aveva chiesto: ma se avessimo avuto più soldi non avremmo potuto portarcela noi in automobile, invece di aspettare l'ambulanza? O andar a vivere in una di quelle belle palazzine vicino al Pronto Soccorso? E a denti stretti il padre aveva ammesso che in certi casi la salute si può misurare in soldi. L'amore però no, aveva aggiunto. L'amore non si compra. Sergio però non aveva ben ancora chiaro cosa l'amore fosse: era una di quelle grandi parole che gli adulti usavano, scatole dentro le quali Sergio non sapeva ancora bene cosa mettere, e così dentro la scatola AMORE cominciò a infilare tutte le cose che non si potevano comprare, non per mancanza di soldi ma di commercio. Per esempio, le figurine erano un passatempo piacevole, ma si compravano: quindi erano un vizio. La partita a pallone nel cortile dell'oratorio, quella non si pagava: Sergio infatti 'amava' giocare a pallone dietro l'oratorio. Tutto abbastanza chiaro, finché non conobbe una brava ragazza e la corteggiò.

A quei tempi i corteggiamenti erano cerimonie molto più estenuanti di adesso, ma non era l'impazienza che stringeva il cuore a Sergio, quanto la sensazione che stare con questa ragazza gli costasse. Doveva portarla al cinema, a volte addirittura al ristorante. Farsi prestare l'auto del fratello maggiore e riportargliela pulita col serbatoio allo stesso livello. Detto questo, Sergio sentiva che avrebbe pagato volentieri anche di più, se ne avesse avuto, ed era questa sensazione a creargli dei problemi. Se per stare con la ragazza doveva pagare, non era vero Amore, erano ancora figurine: un passatempo piacevole, uno sfizio, una cosa che fai solo se te la puoi permettere, e forse Sergio ancora non poteva. Aveva appena iniziato a lavorare e sapeva di dover partir militare da un momento all'altro.

Eppure, al di là di tutte queste preoccupazioni, Sergio credeva di amarla, la sua bella. Non pagava mica lei, infatti, bensì tutti gli ostacoli che si mettevano tra lui e lei: la benzina per raggiungerla, il cinema per poter sedere vicini senza temere il giudizio altrui, né sforzarsi a trovare argomenti di discussione, l'abito necessario a mostrare uno stile di vita un po' più sostenuto di quello che Sergio poteva realmente permettersi, non tanto per vanità, ma per mostrare almeno un po' di ambizione nella vita. Tutte queste cose andavano pagate per arrivare a lei, ma Lei era altrove: se ne stava tranquilla, dall'altra parte di un'infinita teoria di dogane che Sergio doveva passare, sborsando ogni volta un pedaggio o un dazio, ma col sorriso di chi sa che non tornerà sui suoi passi, che prima o poi gli ostacoli sarebbero finiti e Sergio sarebbe infine approdato al vero amore, che è gratis.

Arrivò prima la cartolina del militare. Sergio si ritrovò sbalzato a quattrocento chilometri dalla sua amata, e al telefono era una frana, i gettoni cadevano in un silenzio gonfio di desiderio. Usò le prime tre licenze per andare a trovarla, e ogni volta la sentiva più lontana, le dogane tra lui e lei si erano quadruplicate e sembravano aumentare. Poi realizzò che semplicemente non se la poteva permettere. Fu quando ottenne una licenza breve e le propose di venire lei nella sua nuova città: e ancor prima di toccare l'imbarazzante tasto di chi avrebbe dovuto pagare il biglietto, si sentì controproporre una terza città, a metà strada. Sergio non conosceva ancora bene l'amore ma sapeva fare i conti: gli ci vollero pochi secondi a confrontare i tre viaggi compiuti solo per vedere lei (800 x 3 = 2400 km), col mezzo viaggio che lei era disponibile a sobbarcarsi (400 km). E insomma il rapporto era di uno a sei: poteva funzionare? Il viaggio andò a monte e quando fu congedato, otto mesi dopo, la ragazza era già ufficialmente fidanzata con un altro.

Nel frattempo Sergio aveva iniziato ad andare a mignotte, come si diceva in quella città (a quei tempi davvero ancora ogni città aveva nomi diversi), più per la necessità di stare in compagnia coi commilitoni che per autentica passione – come le figurine, le mignotte si pagavano: non si pagavano dazi o intermediari; non ti spillavano soldi in attesa di qualcosa che nessuno ti garantiva sarebbe arrivato: come le figurine, le mignotte restituivano una soddisfazione immediata e superficiale, qualcosa di cui Sergio era sicuro che si sarebbe vergognato non appena sarebbe cresciuto un po'. Questo capita a molti ventenni, di dare per scontato che cresceranno ancora. È comprensibile: in fondo non hanno smesso di crescere e cambiare da quando sono nati, ogni anno hanno scoperto qualcosa di diverso su di loro e sul mondo, con un andamento iperbolico che lascia immaginare scoperte e cambiamenti sempre maggiori. E invece Sergio non sarebbe mai più cresciuto: era già un uomo fatto, anche se ancora non lo sapeva; le passioni che aveva coltivato in quei vent'anni lo avrebbero accompagnato per il resto della vita; non si sarebbe mai davvero lasciato alle spalle la passione per le figurine, non avrebbe mai smesso di immaginare la felicità come un campetto dietro l'oratorio dove puoi andare a giocare a pallone quando vuoi e nessuno ti manderà via, e avrebbe continuato ad andare a mignotte, sempre vergognandosene un po', ma non abbastanza per smettere.

Ci furono in mezzo alcune delusioni. Per alcuni anni Sergio continuò a pensare che avrebbe trovato la ragazza giusta, si sarebbe sistemato e avrebbe fatto dei figli, di cui per il momento non aveva nessun desiderio, ma col tempo gli sarebbe venuto. Molti suoi amici e coetanei gli stavano mostrando che si poteva diventare adulti così, senza sforzi sovrumani, semplicemente lasciandosi guidare dalla corrente, dal desiderio collettivo di tutte le persone accanto a te che ti desiderano sistemato. Ma Sergio forse non aveva abbastanza persone accanto a sé; la famiglia non lo poteva aiutare; a trovare un lavoro dignitoso ci mise un po' di tempo, e nel frattempo invitare le ragazze fuori continuava a essere imbarazzante. E nessuna ragazza forse lo accecò al punto da non riuscire a vedersi per quel che era, un ragazzo bruttino senza grossi progetti per il futuro, chi se lo sarebbe preso un tipo così? A volte si accorgeva di nutrire un sottile disprezzo chi ancora accettava di uscire con lui. Del resto questo succedeva sempre più di rado; in un qualche modo Sergio aveva passato la boa dei trent'anni, che è più o meno il momento in cui la maggior parte di noi ha già incontrato almeno una volta la propria morte.

Ognuno la trova ovviamente in un luogo diverso: chi nell'alcool, in una droga, nella passione per uno sport estremo, o per il gioco compulsivo, o per le macchine che vanno troppo veloce; in un lavoro che ti succhia la vita e ti distrugge la famiglia, oppure in una famiglia che ti succhia la vita e ti impedisce di lavorare: ognuno di noi a un certo punto incontra quella cosa più forte di lui che sarà la sua fine. È una cosa che avviene di solito entro i trenta (in Italia: altrove saranno più rapidi, come al solito). Prima non capisci niente, provi tutto quello che riesci a provare senza capire se ti piaccia veramente o no, ti attacchi alla canna della vita con l'idea di poter inghiottire qualsiasi cosa e il bello è che per qualche anno è davvero così: riesci a inghiottire qualsiasi cosa, provi piacere e disgusto e non sai distinguerli. Bevi ettolitri di birra senza nemmeno accorgerti che sei un alcolizzato, poi un giorno ti svegli e capisci che lo sei: che l'alcool è la cosa più importante della tua vita; che il tuo stipendio lo calcoli in quanto alcool ci puoi comprare; che i tuoi amici li classifichi a seconda di quanto alcool ti possono offrire o scroccare. A quel punto non è che sei morto, ma hai visto la tua morte in faccia, e la cosa è più positiva di quanto sembri: ora che sai di cosa morirai, puoi anche decidere quando. Se vuoi vivere a lungo, da quel momento in poi metterai più ostacoli possibili tra te e l'alcool: disintossicazione, gruppi anonimi, metter su una famiglia, c'è gente che è arrivata a ottant'anni così, e alcuni non hanno nemmeno smesso di farsi una birra ogni tanto, giusto per il piacere di fare due chiacchiere con la tua più vecchia amica che è la tua personale morte.

Fu insomma verso i trent'anni che Sergio capì che la sua morte sarebbero state le mignotte. Aveva da poco ripreso ad andarci, dopo l'ennesima delusione; lo consolavano, davano un senso ai soldi che portava a casa e non stava investendo in nessuna casetta con giardino. Non le disprezzava, anzi ammirava la professionalità con la quale si abbassavano a stare un po' con lui per soldi. A quel tempo si dividevano ancora sommariamente tra professioniste e tossiche. Le professioniste non mettevano fretta, cercavano per quanto possibile di fideizzare il cliente, insomma passavano rapidamente da amanti a mamme; e quello era l'esatto momento in cui Sergio capiva che lo stavano fregando, e troncava. E valeva la pena di pagare un pochino anche per il piacere di essere lui a troncare, a decidere di cancellare una frequentazione. Alle tossiche non interessava fideizzare, non interessava proteggersi, non interessava niente. Avevano bisogno di soldi e si facevano fare di tutto. Nei loro sguardi aggrottati e rapaci Sergio si riconosceva. Correndo verso la loro morte, avevano incrociato Sergio che si avviava più lentamente verso la sua. C'era ancora tempo, infatti: una malattia venerea, curabile ma fastidiosa, gli diede un grosso spavento e lo convinse a rigar dritto, per un po' (continua).
Comments (2)

L'ombelico è un problema complesso

Permalink
(2004)
Chi crede ai sondaggi e alle inchieste, chi li fa, sembra affezionato a questa idea:
che la gente, interrogata, dica sempre la verità. Gratis. A degli sconosciuti. Quando è già così difficile dirla a sé stessi.

La verità, tutte le volte che mi sono trovato un microfono davanti, mi è parsa la più remota delle opzioni – ma basta parlare di me e del mio ombelico. Parliamo invece di quello di Calozza Clarissa, classe II C, tutta allegra sotto il burqa nero: il motivo di tanta eccitazione?

A domanda del cronista risponde che l'idea non è sua, ma della compagna e amica del cuore Bellei Wanna, che l'altroieri nel putiferio seguito alla circolare a un certo punto ha esclamato: ma perché non facciamo come quelli là di Avezzano? Sabato mattina tutte in burqa! I tradizionali veli afgani sono stati cuciti dalla mamma di Clarissa, sarta part-time. Ah, quindi la mamma è d'accordo… "Le abbiamo detto che ci servivano i costumi di Halloween".

L'amica Wanna in realtà si è già stancata del travestimento, scoprendo magliettina viola e piercing ombelicale di ordinanza. "Avevo un caldo…". Sì, come no. A metà ottobre è definitivamente autunno, qui: piove da tre giorni, ma di avviare le caldaie scolastiche non si parla. Sono effettivamente i giorni a maggior rischio raffreddore. Ma chi conosce Vanessa ha imparato a non sottovalutare il potere della sua melatonina mutante, che in agosto immagazzina su uno sdraio di Cesenatico il calore necessario a scaldare l'ambiente circostante da settembre ad aprile. Così che non è un caso che intorno a lei i ragazzini avvampino. L'ombelico di Vanessa non va in letargo nemmeno a Natale: al rinfresco dell'anno scorso si è presentato in aula magna adorno di un campanellino, jingle bells, jingle bells. Idea copiata da un catalogo sisley, ok, ma tutti abbiamo copiato qualcosa o qualcuno a 16 anni. È comunque probabile che pensasse proprio a quel campanellino il Preside, quando l'altroieri ha pensato bene di riciclare la circolare di Avezzano che vieta agli studenti i calzoncini a vita bassa, cambiare luogo e data e farla girare nelle classi. Una provocazione bella e buona!

Ora, siccome l'amica del cuore Vanessa ha detto che fa caldo, anche a Clarissa tocca aver caldo, e levarsi come minimo il cappuccio: ahi.

Lei pure, a suo modo, è una mutante. Non è brutta, no, non veramente: solo inguardabile, e lo sa. Ed ora è nervosa. È nervosa perché ha i brufoli. E ha i brufoli perché è nervosa. Chi può interrompere il circolo vizioso? Chi può impedirle di osservare la sua pelle, sottoporla a un micidiale cocktail di prodotti per l'igiene, massaggiarla compulsivamente, strizzarla, strizzare le strizzate, seguire diete sballate, interromperle con disastrosi abusi alimentari? Chiunque le passi vicino può distogliere lo sguardo, ma lei no: la sua pelle le è a portata di mano in ogni momento, ogni specchio è un'istigazione all'automolestia. Una camicia di forza?

Per ora si leva il burqa, ché alla sua amica non piace già più, e scopre anche lei una magliettina gialla, e tra la magliettina e il cinturone un budello roseo, concentrico: l'ombelico è da qualche parte lì in mezzo: il piercing, se c'è, non se la passa molto bene. Eppure Clarissa Colozza (La Cozza, per gli amici più fidati) ama il suo pancino: è la cosa più rosea gommosa e liscia che ha. Le lebbra bianca non ha ancora raggiunto il punto vita. Si massaggia teneramente e, interrogata, risponde.

"Sì, il burqa è un modo per protestare contro la circolare del preside, che vuole toglierci la libertà di vestirci come vogliamo, di apparire come siamo. Io credo che i vestiti facciano parte dell'identità di una persona, cioè, se scelgo di mostrare l'ombelico a scuola mica scandalizzo nessuno".

Questo è quanto ha da dirvi Clarissa.
E voi magari le credete.

Passiamo ora al prof. Esso, che stamattina già si è alzato male. Il sabato lavorativo non si addice al prof. progressista: in più, la prospettiva di imbattersi alle nove del mattino nell'ombelico nudo della Cozza gli ha chiuso la bocca dello stomaco a metà colazione.
"E dire", pensa lui, "che la ragazza avrebbe anche un suo stile. Certe acconciature… i golfini che portava l'anno scorso… la Bellei ha copiato un sacco da lei. Eppure…"
Sull'autobus Esso continua a riflettere sull'apparente mistero: ogni anno, 'ste ragazzine si scoprono un po' di più, e lo eccitano un po' di meno. Meglio così, però la cosa è triste, ti dà proprio l'impressione di invecchiare. "Quand'è l'ultima volta che mi sono eccitato per una ragazzina? vediamo…"
Poi gli viene in mente un film, non si ricorda neanche il titolo, ma inglese. Roba da ggiovani – era rimasto sulle poltrone in fondo per paura di imbattersi in qualche alunno suo. Il protagonista, appena disintossicato dall'eroina, andava in discoteca e si faceva immediatamente agganciare da una ragazza, che se lo portava in casa. La ragazza non era niente di speciale, la situazione non era niente di speciale, la scena di sesso niente di niente di speciale. Ma poi -
- Al mattino, quando il protagonista si sveglia, ha una visione abbacinante: la ragazza si sta vestendo. Una gonna blu, una camicia azzurra, e… forse persino una cravatta. Un'uniforme! L'uniforme di una scuola britannica!
In quel momento, il protagonista realizza che è stato sedotto da una minorenne.
E il prof Randolla, appeso al trespolo dell'autobus, ripensandoci ha un timido accenno d'erezione.

Ora che è arrivato sul luogo di lavoro, e ha assistito scuotendo la testa alla manifestazione finto-talebana, se gli mettete il microfono davanti vi dichiarerà:
"Guardate, io mi considero un progressista, ma stavolta mi sento assolutamente dalla parte del mio preside. La libertà non consiste nello scoprire un centimetro in più di pelle, come ritengono questi studenti. Sono loro piuttosto a essere schiavi di una moda sempre più esigente. Qui rischiamo di creare un nuovo tipo di emarginazione, non più sociale, ma estetica: chi non entra in una camicetta, chi non si può permettere di mostrare l'ombelico, resta fuori dal gruppo. Io, fosse per me, re-introdurrei le uniformi, come in Inghilterra. Le ragazze… e i ragazzi, anche i ragazzi, devono capire che a scuola sono tutti uguali, non c'è il ricco e il povero, e nemmeno il bello o il brutto. C'è solo chi si impegna e chi no. Essere uguali davanti a chi vi giudica: questo è il vero senso della libertà".

E questo è quanto ha da dirvi il prof. Esso.
E magari voi credete pure a lui.

FINE


*******

"Un... 'timido accenno di erezione', professore? Chiedo un racconto sull'amore carnale, e tutto quello che ottengo è un 'timido accenno di erezione'?" Questi sarebbe il mio spasimante che fa la ruota?"
"Mia signora, nella mia posizione quel timido accenno è già oltre i limiti della deontologia".
"Hai sbagliato turno: non si parla più di lavoro qui, ma di sesso. Voglio sperare che il tema sia più congeniale al tuo rivale, Bart Taddei... a proposito, Taddei, che notizie ci porti dalla palestra della mia residenza ormai deputata a lazzaretto?"
"Non buone, mia signora: nessun antibiotico sembra fare effetto sui malati, che..."
"Sì, beh, questo si era capito. Ma insomma in quando pensano di sgomberare? Dovevamo fare training autogeno. Non dovrebbero metterci molto ormai"...
Comments

Tre gemiti all'unisono

Permalink
"Siamo quindi già alla fine del terzo turno; come vola il tempo, quando ci si diverte", proseguì l'ironica Verola. "Mària, prof. Esso, i vostri racconti non erano neppure così male; è evidente che vi stavate risparmiando per gli ultimi turni. E tuttavia non è curioso che quando io vi ho chiesto un racconto sul lavoro, voi mi abbiate rifilato un racconto su voi stessi? Non è indicativo di una certa confusione? Mària, tu sei forse il lavoro che fai?"
"Può darsi", ammise Mària, "che io lo sia diventato, cogli anni e le delusioni. Ma..."
"Professore, hai parlato tanto di scuola fin qui, e stavolta invece hai sognato di scappare. Si direbbe che tu t'impegni a mancare sempre il bersaglio".
"C'è del vero, mia Signora, e tuttavia..."
"Basta ma, basta tuttavia. Statevene zitti per un buon minutino, adesso, ok? Devo riflettere".
































































































(Stai scrollando troppo in fretta, torna su)














(bwowwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwww)

























































"Mària", rispose infine Verola, "temo che dobbiamo privarci della tua pur gradevole compagnia".
A quella notizia, un gemito sfuggì all'unisono dalle gole di Taddei e don Tinto, consapevoli che le notti seguenti sarebbero state molto meno interessanti. Lo stesso professore, pur manifestando sollievo per l'eliminazione scampata, s'inginocchiò davanti alla sua signora, e lo si udì proferire queste parole:
"Mia signora, non discuto, come è giusto, la tua sentenza che una volta ancora conforta le mie folli speranze; ma se ho qualche merito presso di te, ti prego, non espellere Mària nella valle dove imperversa il morbo che ormai, lo sappiamo, è mortale. Trattienila presso il tuo seguito, dove, benché sconfitta nel certame, non le mancheranno le occasioni per rendersi utile..."
"Fingerò di non capire quali occasioni non le mancherebbero", rispose Verola malcelando un sorriso, "e di non vedere le motivazioni meno nobili dietro alla tua scena madre. Del resto non nego che Mària mancherà anche a me: ma se ho scacciato gli altri due concorrenti sconfitti, non posso per lei cambiare le regole della competizione; tanto più che il personale di servizio comincia a scarseggiare e nell'ala della residenza in cui ci siamo rifugiati non ci sono abbastanza giacigli per tutti".
"Se è un problema di giaciglio", osò allora dire Mària, "io posso stringermi..."
"Basta così, Mària, non stancarmi. Prendi le tue cose e in bocca al lupo", tagliò corto Verola. E come Mària, senza una lacrima, ebbe abbandonato la compagnia, riprese: "Cosa sono quelle facce? Preferivate scendere al suo posto?"
"Mia signora", rispose Taddei, "se pure ognuno di noi in cuor suo si augura di veder cadere tutti i suoi rivali e restare qui per ultimo, tutti per penultimo avremmo probabilmente voluto Mària". 
"Ah, e come mai?"
"Forse è l'unica", azzardò Don Tinto, "che nei suoi racconti ha messo un po' di carnalità, un po' di solido amore..."
"Meglio così, allora", rispose Verola, "dal momento che l'amor carnale sarà l'argomento del prossimo turno. Comincerà il professore, che con tutta quella pietà per la povera Mària non me la conta mica giusta. E adesso ritiriamoci, che domani... domani... mah, siamo rimasti in quattro, che ne dite di un doppio misto?"
"Mia signora, il campo da tennis è stato adibito a... fossa comune".
"Ah già. Beh, ci dev'essere un tavolo da ping pong in solaio".


******* FINE DEL TERZO TURNO *******
Comments

Di come Don Tinto perse la fede

Permalink
(2011)
Se proprio era inevitabile, e forse lo era, Don Tinto avrebbe preferito perderla in un incidente, come succede a tanti. Un ubriaco entra in autostrada contromano, fa secco tuo fratello che non ha mai fatto nulla di cattivo in vita sua, quindi Dio dov'è? Sarà che la sua parrocchia era nei pressi di un casello, ma Don Tinto ne ha conosciuti parecchi che hanno perso la fede così. Molti addirittura si sentivano obbligati a venire a spiegarglielo al confessionale, Don Tinto mi spiace, lei è tanto una brava persona, ma mia figlia è stata spappolata da un tir che ha invaso la carreggiata, prova evidente che Dio non c'è.

In questi casi il sacerdote professionale abbozza una smorfia di contrizione, protesta di non voler neanche tentare di consolare un dolore inconsolabile, farfuglia qualcosa sul mistero della provvidenza, e nel caso di Don Tinto si torce le mani nell'oscurità del confessionale, perché la voglia di tirare due ceffoni lo tenta fortissimo. Non dico alle elementari, eh, ma almeno dalle medie in su dovrebbe essere chiaro che i suoi disegni sono un filo più complessi e imperscrutabili delle statistiche sulla mortalità del traffico. Ma insomma signorino, lo scopri oggi che i tir ammazzano le persone, e che Dio in linea di massima non tira nessun freno d'emergenza? Il Dio in cui hai creduto fino a ieri non interviene negli incidenti stradali, e fino a ieri la cosa non ti turbava nemmeno. Poi un giorno ti toccano gli affetti e all'improvviso sai più teologia di San Tommaso, ma va', va', che la tua fede non era poi gran cosa se basta un autosnodato a disintegrarla.

E tuttavia almeno in casi del genere puoi prendertela con l'autosnodato. Mentre Don Tinto chi biasimerà? Sé stesso, soltanto sé stesso. La fede, non sa neanche dire quando l'ha persa esattamente. L'ultima volta che ricorda di averla vista era lì, sulla scrivania, tra i moduli della dichiarazione dei redditi e il rendiconto annuale della scuola materna (in rosso fisso). Rammenta in effetti di essersi detto che non era il posto adatto per una cosa tanto importante; che andava custodita con più attenzione, e di averla d'impulso spostata... dove? Maledetto impulso, non bisognerebbe mai spostare le cose senza pensare al quadro generale. Che poi finiscono in fondo ai penultimi cassetti vuoti che piano piano si riempiono di altre cose importanti che è meglio mettere in un posto al sicuro, e dopo qualche mese valli più a trovare, in mezzo a tutto quel casino di cose ugualmente importanti.

Imbarazzante, ma è così: Don Tinto non ha perso la fede in un incidente, per una delusione, al termine di una crisi, durante una malattia. L'ha persa un giorno qualunque che fuori pioveva, i conti non tornavano, la bici era sgonfia, c'erano formiche in cucina e la crepa dell'intonaco in soggiorno si stava allungando. In chiesa il riscaldamento non funzionava bene, benché il tecnico spergiurasse il contrario: bisognava farne venire uno più capace, ma questo equivaleva a offendere un parrocchiano, la sua famiglia, le sue zie generose con la questua eccetera. L'organo, un gioiellino di tardo Settecento inspiegabilmente rimasto lì, era mal temperato, e i Beni Culturali lo avevano diffidato a chiamare qualsiasi altro accordatore tranne quello di loro fiducia, esosissimo; al solo pensiero Don Tinto preferiva chiudere a chiave la tastiera e non pensarci più, ma questo significava concedere altro spazio all'azione giovanile e alle loro chitarre frastornanti, non ce n'era mai una accordata all'altra, mentre distribuiva meccanicamente il Corpo di Cristo Don Tinto malediceva il suo orecchio non assoluto, ma comunque esageratamente raffinato per le necessità di un sacerdote di provincia. O forse stava schedulando le benedizioni quaresimali a domicilio? o buttando giù tre idee per l'omelia di domenica? o pianificando la sagra, organizzando la pesca benefica per la sagra, cercando i premi per la pesca benefica, identificando gli sponsor adatti che avrebbero potuto offrire i premi... Oppure stava dormendo, anche i preti dormono. Don Tinto aveva necessità di otto ore filate, sennò si appisolava in confessionale. Magari mentre leggeva compieta gli si erano chiusi gli occhi, magari aveva pensato che cinque minuti di sonno non avrebbero offeso N. Signore, anzi, poteva essere un sistema per parlare meglio con lui (con molti Santi funzionava), ma in luogo di un rapimento estatico Don Tinto era crollato schiacciando il naso sul salterio, sbavando sul versetto 31 del Salmo 119; e quando si era svegliato tre ore dopo non ricordava più dove aveva messo la sua fede, in che cassetto si trovasse. Poco male, pensò, mica l'ho buttata via. Salterà fuori prima o poi.

Lo si dice di tante cose che ci sembrano importanti, ma che alla fine non usiamo quasi mai. Un sacerdote più zelante di Don Tinto avrebbe stravolto i cassetti, gli scaffali, le mensole, la cassaforte della Canonica, l'archivio parrocchiale; avrebbe buttato tutto all'aria finché non avesse trovato l'unica cosa fondamentale, la fede! Don Tinto invece aveva una parrocchia da mandare avanti e per prima cosa pensò che il mattino dopo doveva svegliarsi presto, c'era da salire al campeggio per celebrare una messa oppure fare il tour settimanale delle estreme unzioni, tutte cose importanti e tranquillamente fattibili anche senza la fede personale, che comunque sarebbe saltata fuori prima o poi, insomma, mica l'aveva buttata via.

Invece non saltò fuori più, e, quel che è peggio, Don Tinto non riuscì mai a trovare il tempo per svuotare i cassetti, dare aria agli armadi e tutto il resto. Non che non gli dispiacesse non avere la sua fede a disposizione, caso mai ci fossero montagne da spostare: ma bisogna dire che nessuno gli chiese mai gesti così spettacolari. Bisognava invece preparare l'ora di religione alla scuola media, i ragazzini diventavano sempre più insidiosi con le loro domande; ordinare paramenti nuovi, non troppo vistosi ma neanche troppo moderni perché tanto la gente mormora comunque; portare la panda dal meccanico; lunedì sera c'era la riunione con gli altri parroci della zona nord della diocesi; martedì un'ecografia all'addome, mercoledì il corso prematrimoniale. E poi bisognava confessare, comunicare, pregare, senza più fede ma comunque con professionalità, ché l'ultima cosa che serve ai parrocchiani è un prete con le turbe di coscienza.

Provò i ritiri spirituali, le scalate in solitaria, le vacanze al mare, ma non serviva a niente: Dio era senza dubbio ovunque e quindi anche in vetta ai monti e sotto agli ombrelloni, ma la fede di Don Tinto rimaneva incastrata in qualche intercapedine del suo studio, era lì che bisognava mettersi a cercarla. Il punto è che ogni volta che tornava in quella stanza maledetta c'era una telefonata da fare o ricevere, un peccatore da confessare, un malato da consolare, un affamato a cui non poteva mica dire: “Torna tra un po', prima di sfamarti occorre ch'io ritrovi la mia fede”. In mezzo a tutte queste piccole preoccupazioni, era Don Tinto a sentirsi sempre più simile a una montagna che nessuno si sarebbe azzardato a spostare.

Alla fine gli unici momenti in cui Don Tinto riusciva a pensarci era quando gli capitava di fare due chiacchiere con uno scettico. Ne incontrava un po' a tutti i livelli, nel confessionale o dal dottore e ai dopocena tra colleghi. Più o meno continuavano a dire le stesse cose, sempre con l'aria di riferire chissà quale enorme novità scientifica: perché Dio consente il male? E l'evoluzione? Il Big Bang? Benché avesse imparato a dribblare tutte queste obiezioni già in seminario, Don Tinto si sentiva onorato che qualcuno continuasse a proporle proprio a lui: evidentemente visto da fuori doveva sembrare una di quelle travi solide che non oscillano, ma possono solo spezzarsi una volta accettata l'inconsistenza dei propri fondamenti.

E invece la trave era marcia dentro. Gli scettici lo blandivano, credevano che Don Tinto avesse ancora una fede da potersi perdere davanti a un ragionamento astratto, o all'osservazione del dolore. Ma se perse la fede, Don Tinto la perse tra un modulo di rimborso e un estratto conto; la smarrì nella polvere che si posava sul raccoglitore della corrispondenza e la perpetua non osava spolverare. Non la perse di fronte allo spettacolo osceno di un bambino che muore, ma nel fastidio cronico delle coliche renali. Che il mondo di Dio fosse pieno di sofferenza, lo aveva accettato sin dal seminario; quello che allora non aveva previsto, è che fosse pieno di moduli e di piccoli appunti, di bici sgonfie quando occorre fare un giro rapido, e chitarre scordate, il telefono che resta senza credito quando devi fare una chiamata importante, il call center che ti prende in giro, la comitiva di pellegrini che al ritorno si lamentano dell'albergo che gli hai consigliato tu (è cambiata gestione), i reumatismi, il cigolio degli scuri della canonica che lo sveglia nel cuore della notte perché i fermi si sono smurati, bisogna chiamare un artigiano e non ce n'è uno solo onesto, e insomma tutti questi piccoli fastidi e preoccupazioni corpuscolari, nessuna delle quale era degna di una lamentela ad alta voce, ma che tutte insieme costituivano l'inferno in terra.

Quando fu il suo giorno di morire, nel suo letto, adeguatamente drogato affinché il dolore non gli togliesse la lucidità, pensò che forse finalmente aveva un po' di tempo per riflettere, e raccomandarsi a Dio; così chiuse gli occhi e lo chiamò. Ma se ne pentì immediatamente, come chi in un pomeriggio d'estate chiama una vecchia fiamma e mette giù prima che suoni libero. Con che faccia poteva disturbarlo, dopo che per tanti anni non era riuscito a trovare una mezza giornata per cercarlo in mezzo alle fatture, i telegrammi, il calendario con le messe prenotate, la classifica dei chierichetti, l'ordine del giorno del consiglio pastorale, il pin del bancomat. Sperò che nella sua infinita misericordia Dio, oltre alla fede, desse un'occhiata anche al mestiere. Poi si ricordò che non era neanche sicuro di essere stato un buon prete: non riusciva mai a finire il giro delle benedizioni entro il venerdì Santo e malgrado tutti gli sponsor e le pesche benefiche il bilancio della scuola materna era sempre più rosso, rosso inferno (fu il suo ultimo pensiero).

La parrocchia rimase vacante per un paio d'anni, finché non arrivò un pretino curioso, slavo o baltico, con un alito che sapeva sempre un po' d'acqua di colonia, orfano di madre e ammaccato dal padre, cresciuto in seminario ed espulso dalla sua qualsiasi nazione in circostanze non chiarissime. Quando entrò nella canonica la prima cosa che notò fu la confusione dell'ufficio al piano terra, un bugigattolo che avrebbe funzionato meglio da tavernetta, uno spazio per i più giovani con le playstation i divanetti le riviste eccetera, un luogo dove interagire senza troppi freni. Tanto più che, a parte una consolle di mogano massello, era tutto impiallacciato senza qualità, roba da regalare immediatamente al primo ente benefico che si assumesse la spesa del trasporto.

Fu appunto mentre guardava i volontari caricare che Don Pavel notò una busta gonfia caduta in fondo nel cavo di un comò a cui avevano estratto i cassetti. La fece rapidamente sparire nelle maniche della tonaca, pregando silenziosamente che non fosse una mazzetta di vecchie lire fuori corso. Ma quando fu solo e l'aprì, ci trovò soltanto la fede di Don Tinto. A lui non serviva più, così Don Pavel se la tenne, per tutti i quarant'anni in cui rimase arciprete di quella parrocchia, stimato e rispettato da tutta la comunità, e persino dai non credenti, per gli esempi di generosità e rettitudine che seppe offrire e persino per le guarigioni e i miracoli che gli furono attribuiti: tanto che a Roma si pensa già di farlo Beato.

FINE

*******

"Quindi, Don Tinto, tu sei morto", replicò ammirata Verola, "non lo sapevo, avresti potuto avvertirmene quando ti ho invitato. O devo dedurre che siamo tutti morti qui, e aspettiamo le bare che ci portino via?"
A quel punto un brivido gelido percorse le schiene dei quattro candidati.
"Mia signora", rispose l'ex parroco, "anche il mio racconto è la storia di una vita che non ho vissuto; o perlomeno non interamente".
"Quello che più mi stupisce del tuo potente racconto - potente come sonnifero, intendo - è il fatto che tu abbia potuto pensare a raccontare la vita di un depresso prete di provincia, dopo che avevo trovato noiosa quella di una prostituta transessuale".
"Mia Signora, stasera ho messo il mio cuore a nudo, davanti a lei: se il racconto non le è piaciuto, non le piaccio io, ed eliminarmi immediatamente sarà cosa buona e giusta".
"Hai sbagliato gioco, Padre, se pensi di essere tu qui per mettere alla prova me. Eppure ammetto che c'è qualcosa nel tuo racconto, che ti salverà anche a questo turno. Prof. Esso, Mària, fate un passo avanti...

[Continuawwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwww]
Comments (3)

Storia di Mària

Permalink
(2007)
Il primo a porre il problema fu il padre, che una sera – Mària aveva dieci anni – rincasando fetente di bar, le appioppò un ceffone. Senza un motivo al mondo. O meglio: Mària stava correndo verso di lui nel corridoio, blaterando di un compito di scuola o di qualche altra sciocchezza, mentre il padre aveva i suoi problemi, i suoi debiti, i suoi pensieri, e insomma S-ciaf!
“Perché non parli come un maschio?”

Mària non crede nei traumi infantili, via! un ceffone è un ceffone. Di sicuro non è diventato così per una sberla, tra mille che ne avrà prese. Ma da quel giorno cominciò pure qualcosa. Col ceffone il padre gli propose la questione fondamentale: chi sono i maschi? Cosa vogliono? Come parlano? A dieci anni Mària non ne aveva la minima idea. Sempre in casa stava, appiccicato alla sottana di mamma. Era ora di dare un'occhiata al mondo.

La curiosità lo spinse a vivere la ricreazione in un modo diverso. Di colpo in bianco smise di giocare alla settimana con le compagne, che pure teneva carissime, e si avventurò nell’angolo di cortile dove spallonavano i maschi di quinta. Qui trovò una conferma ai sospetti del padre: la sua voce non andava. Il tono non era così diverso da quello degli altri bambini, ma c’era qualcosa di stridulo, che paragonato al rozzo bofonchiare di Flavio Dusacchi lo faceva suonare affettato. Lo stesso soprannome, abbreviazione del banalissimo cognome “Mariani”, sillabato da quei monelli assumeva una sfumatura equivoca. Né Mario né Maria: Mària. Un nome qualunque, eppure unico al mondo. Mària non lo avrebbe mai più abbandonato.

Per il resto non erano così cattivi, gli ometti di quinta. Mària se li ingraziava con merende supplementari e pacchetti di figurine. Ripensandoci da adulta, un poco la imbarazza questa totale mancanza di dignità. Ma stare coi maschi era troppo importante. Era fiera dei lividi che si portava a casa – i maschi avevano sviluppato un’arte marziale che consisteva in una sequenza infinita di ganci destri alle spalle. Mària era un punchball simpatico e disponibile, e lo sarebbe rimasto per anni. Da Bordon Diego imparò anche a bestemmiare Dio e i Santi: ma quelle sillabe magiche, ripetute da Mària, tornavano a suonare troppo simili a preghiere, e insomma, dopo qualche tentativo Mària lasciò perdere: la sua non era una voce da maschi. Anche il padre si rassegnò.

Alle medie il vocabolario maschile s’allargò all’improvviso, e Mària scoprì d’essere un finocchio, un ricchione, una checca, un busone: tutto questo senza ancora mai avere desiderato nessuno, né maschio né femmina: e poi dicono che il genere si sceglie. Mària si era rimesso a chiacchierare con le compagne, ora che i maschiacci evitavano anche solo di toccarlo, per via del contagio: fermamente convinti che lo sfioramento del busone comportasse un rischio per la loro virilità, passavano intere ricreazioni a inseguirsi urlando “sfiga-di-Mària-immune!” E altre cose simili che gli insegnanti, innocenti non notavano. Erano tempi diversi, parole come bullismo e omofobia non stavano nemmeno nel dizionario.
Poi venne la fase degli odori.

Si ricorda molto bene, Mària, che molto prima di decidersi a guardarli, i maschietti cominciò ad annusarli.
Non ci poteva fare niente. Gli odori stanno nell’aria. Gesù ha detto di cavarti un occhio, se ti dà scandalo, ma non ha aggiunto di turarti il naso. Il sudore di D’Angelo era muschiato e dolcissimo. Germini Patrizio aveva una pelle spugnosa che tratteneva l’odore di qualsiasi bagnoschiuma, anche se quasi sempre era pino silvestre. Nel frattempo le sue compagne cominciavano timidamente a truccarsi: Mària aveva potuto contare fino a quel momento sulla loro complicità, ora qualcosa stava cambiando; iniziava a odiarle. I loro profumini le impedivano di concentrarsi sull’afrore ascellare di Verozzi. E c’era il problema delle tette, che iniziavano a catalizzare gli sguardi. In questo gioco di rimandi incrociati, Mària restava totalmente indisturbata, e aveva modo di osservare gli altri. I maschi la indispettivano, non riusciva più a capirli. Fino a qualche settimana prima non alzavano gli occhi dalle figurine, ora avrebbero dato il rarissimo Pietro Vierchowod per uno sfioro di tetta.

E i peli. Fu Dusacchi il primo uomo a porre il problema, nello spogliatoio maschile. “Mària, oh! Ma ti radi?”
Se avesse avuto il tempo, in mezzo alle risate dei compagni, Mària avrebbe risposto di sì: si radeva, perché cominciava ad averne tanto, e folto, e la imbarazzava in particolare quel ciuffetto che tendeva a salire in direzione ombelico; ma Dusacchi, biondo com’era, poteva capirlo? D’altronde, cosa stava succedendo? Da quando in qua nello spogliatoio ci si guardava in basso? Mària non aveva mai osato. Pensava che ai maschi non piacesse. E Mària stava facendo il possibile per capirli, i maschi.

Gli piacevano. Gli piaceva l’insolenza metropolitana di Dusacchi, la timidezza irsuta di Verozzi, l’accento nordico di Bordon quando con una presa al collo lo stringeva tra le braccia per un momento, sussurrando “busone di merda”. Tutto sembrava pronto per un’esplosione ormonale, che invece il liceo congelò: al riparo dai maschi, in una classe a stragrande maggioranza femminile, Mària si dimentico degli odori e riprese a cicalare con le amiche. Divenne il migliore confidente di tutte, perché effettivamente conosceva i maschi meglio di loro, e la frase “Tutti stronzi” in bocca a Mària sapeva più di vero. In compenso le ragazze gli insegnarono a vestirsi con stile, a camminare nei corridoi come sotto i portici del centro, e viceversa.

Il quinto anno fu meraviglioso, Mària era diventata una sintesi di due sessi che gli piacevano molto, e cominciava ad aggiungerci qualcosa di originale, di suo. Un pomeriggio d’aprile, mentre ufficialmente aiutava Barazzi Clelia a ripassare chimica (in realtà provando vestiti vintage eredità di una zia), si ritrovò abbracciata su di lei, nel letto di lei, e pensò che quello che la situazione le richiedeva era un bacio. Ma forse sbagliò i tempi, o i modi: non aveva mai baciato una ragazza – non aveva mai baciato nessuno! Clelia si irrigidì di scatto, se lo aveva desiderato era stato un attimo, un giorno, un anno, un millennio prima: Mària si ritrasse, avrebbe voluto scomparire, e in un certo senso davvero scomparì qualcosa in lui, per sempre.

Un mese dopo, in gita scolastica, Clelia venne a bussare alla sua camera. “Ti devo dire un segreto. Sono omosessuale”.
“Eh?”
“Si dice anche delle donne, non lo sai? Perché deriva dal greco…”
“Clelia, ehi, lo so da cosa deriva. Maccosa… come fai a saperlo”.
“Ho fatto sesso con Nadia”.
“Quella zoccola? Ma non vuol dire, è ubriaca da ieri, e poi… e perché vieni qui a dirmelo adesso…”
“Volevo ringraziarti. Perché è stato grazie a te che l’ho capito… quel pomeriggio che tu... che io...”
“Clelia, senti, sei fatta anche tu. Perché non ti stendi un po’, ti riposi e poi magari domani ne riparliamo”.
Clelia russò tutta la notte, come a ribadire il suo omoerotismo conquistato e trionfale, lasciando Mària sveglia a scalciare i dubbi: ha capito che è lesbica perché l’ho baciata, o ha capito che è lesbica perché l’ho baciata da schifo? Le piaccio o no? Le piaccio come uomo o come donna? O le piaccio perché non sono né l’uno né l’altro? Oppure tutto sommato non le piaccio, visto che alla fine si scopa la zoccola dall’altra parte del corridoio? Oppure avevano ragione i maschi alle medie, l’omosessualità è un virus e io gliel’ho passato… sfiga-di-Mària-immune… che casino… ma sai che c’è? Io non ne voglio un cazzo… a me piacciono i maschi… l’odore dei maschi… queste ragazze con tutti i loro problemi mi stressano la minchia e basta… fammi prendere la maturità e poi non mi trovano mai più”.

All'università, in una città diversa, la bomba ormonale, pazientemente custodita negli anni di frustrante apprendistato, esplose con la forza di cento cavalli vapore. Da vergine a idolo delle feste nel giro di pochi mesi, finché – sorpresa – non si stancò. Piuttosto presto. La promiscuità lo attirava, e insieme lo lasciava insoddisfatto. Provò a farsi una storia seria: ci provò con tutte le forze. Andò persino a vivere con lui, un damsino di Matera con la fissa per il cinema tedesco. Durò due anni. Finché Mària non si accorse che stava soffocando. Andavano nei locali dei gay, alle feste gay. Conosceva tutti, e non gli piaceva più nessuno. Avrebbe voluto entrare nel bar di una polisportiva, e guardare le partite della Fortitudo coi ragazzetti del quartiere, e invece doveva sgugnarsi la retrospettiva di Almodovar. E non provare ad allungare quelle mani.
“Vabbe', senti, ti lascio”.
“SSsssst, è iniziato il film”.
“Ed è colpa mia, eh. Tu sei gentilissimo e bravissimo e assolutamente a posto. Il problema è che sei gay”.
“Anche tu”.
“Lo so. Io però i gay non li sopporto”.
“E cosa ti piace, allora?”
“Mi piacciono i maschi”.
“E cosa pensi di fare?”
“Non lo so”.
“Prova con le tette”.

Il consiglio, totalmente gratuito, schiacciò Mària come l’uovo di Colombo. Ma per abituarsi all’idea ci vollero comunque un annetto o due. Cominciò con un push-up, giusto per vedere l’effetto. Non male! Aveva la sensazione di portarsi un pezzo di mamma con sé, le dava un senso come di confidenza. Infine iniziò con gli ormoni. Vedersi cambiare fu spaventoso e fantastico: l’adolescenza, finalmente, a ventott'anni. Il risultato finale fu discretamente spettacolare. Ora Mària sarebbe piaciuta agli uomini.
Il risultato andava ovviamente monetizzato: dei soldi aveva bisogno, e inoltre non conosceva molti altri modi d’incontrare persone interessate alla sua nuova identità sessuale. Prese in affitto una mansarda e pagò un paio di annunci sul giornale adatto: era nata una stella. I primi utili furono utilizzati in un paio di altri ritocchi che Mària riteneva necessari. Perché aveva voglia di tornare a casa, e voleva tornarci perfetta, e magari irriconoscibile. Come una seconda nascita.

“Torno a spaccarvi il culo”.
Letteralmente. Nei primi sei mesi di attività, Mària si ritrovò a sodomizzare D’Angelo, che ogni tanto ne aveva voglia ma non si considerava un ricchione; Verozzi, che voleva provare “una volta l’effetto che fa”; Germini che sosteneva d’essere ubriaco e di avere litigato con la fidanzata, e che dopo mezz’ora ebbe una specie di orgasmo multiplo mai attestato nella letteratura scientifica; e Bordon, il rude Bordon, che lo incitava pure: “Dai! E dai! E spingi, busone di merda!”
“Ma allora ti ricordi di me?”
“Perché ti sei fermato? E spingi!”

Fu Dusacchi a riconoscerlo, invece, dalle misure.
“Ma certo che lo so chi sei, eri quello che ce l’aveva più lungo di tutta la scuola”.
“Io?”
“E che pelo avevi. Ne avevi tanto che ti radevi. E due gioielli, grossi così, solo tu. Ci ho pensato per anni”.
“Ai miei gioielli”.
“Sì”.
“E non potevi dirmelo prima? Dovevi aspettare che mi facessi crescere le tette?”
“Mi piacciono le tue tette”.
“Ma non le stai nemmeno guardando. È un pretesto. Non ti piacciono così tanto”.
“Certo che mi piacciono. Non sono mica un busone”.
“Sicuro?”
“O, vaffanculo”.

Il che, detto da Dusacchi, nella posizione in cui si trovava in quel preciso momento, suonava decisamente ironico.
“Non darmi mai più del busone. Mai più”.
“Va bene, ora sssst”.

Ricapitolando: Mària cercava l’uomo vero, si è montata un par di tette da sogno, e adesso il suo mestiere consiste nel sodomizzare una manica di maschi repressi che hanno paura di chiederlo a un gay. Non vi girerebbero le palle? A Mària in effetti girano. Ma questi maschi chi sono? Cosa vogliono? Lei si aspettava protezione, energia, magari anche ceffoni. E questi giù, in ginocchio o a pecora, a implorare, spingi spingi, che roba è? Mària è molto delusa. Cambierebbe anche sesso, se gliene fosse rimasto uno da provare.

L’altro giorno, per incanaglirsi, sbirciava la diretta del family day, quando in uno scorcio rapido li vide: nell’orgia cattolica di Piazza San Giovanni – milioni di persone convenute da tutt’Italia perché ce l’avevano con lei – Barazzi Clelia e Dusacchi Flavio mano nella mano, quest’ultimo con un bambino biondo calcato sulle spalle. E a momenti sveniva, sul serio, perché un bambino coi capelli di Dusacchi e il labbro di Clelia era ciò che più si avvicinava alla sua idea di perfezione.
Eh, quanto è piccolo il paese. Dunque è Clelia l’oca-moglie a cui Flavio ama sputare ingiurie postcoitali. Ma non era lesbica? Si vede che s’era sbagliata – chi è Mària per giudicare. Ma chi sono Flavio o Clelia, d’altro canto, per dare lezioni di normalità sessuale? E perché ce l’hanno tanto con Mària, che in tutta la sua vita non ha mai tolto niente a nessuno? Dio probabilmente ha inventato la famiglia solo per vedere il sorriso dei bambini, e si dimentica alla svelta tutte le ipocrisie, le promesse e le minchiate che vengono prima o dopo. Gli uomini e le donne e gli altri però quaggiù hanno da vivere, raccontandosi bugie e tirando avanti – e finché funziona che male c’è? Ma funzionerebbe, la Sacra Famiglia Dusacchi, senza la mansarda di Mària che fa da camera di compensazione? Sul serio non c’è posto nel presepe per lei? Potrebbe fare il bue, un'altra creatura di sessualità incerta; ma senza di lui si moriva dal freddo, quella notte.

FINE
*******

"Spero che non me ne vorrai, cara Mària", sbottò dopo qualche tempo l'assonnata Verola, "se a un certo punto mi sono addormentata. D'altro canto è pur degno di nota che tu sia riuscita a rendere noiosa la storia di una meretrice transessuale. Vabbe'. Chi è rimasto? Don Tinto, dopo aver sentito i suoi concorrenti, sarà d'accordo con me sul fatto che la promozione è alla sua portata".
"Vedrò cosa posso fare, mia signora".
"Veda veda. Noi ci vediamo domani nell'orto. Coglieremo - pardon, coglierete - qualche vegetale bio per il nostro desco. Il mio giardiniere ha avuto una crisi di diarrea un po' sospetta, sapete, così l'ho messo in quarantena"...
Comments (2)

È un mercato pazzerello

Permalink
(2008)
“Non stai dormendo, vero?”
“Mmmno”.
“Che faccia che hai. Si può sapere cosa ti preoccupa? Non è mica la tua crisi questa. Sei uno statale”.
“Ma come ci arrivo in pensione a ottant'anni”.
“Ti ammalerai e ci andrai prima”.
“E se mi ammalo dove li trovo i soldi”.
“Per allora avremo messo qualcosa da parte, un'assicurazione, la casa...”
“A proposito, e l’immobiliare?”
“Ci risentiamo domani. Comunque i prezzi sono quelli lì”.
“Ma sono matti. Sono tutti matti. Non dovrebbero calare?”
“Come no”.
“Calano, calano”.
“Dovevano calare già l’anno scorso, no?”
“Tra un po’ va giù tutto, vedrai”.
“Quando va giù tutto la gente si aggrappa alle case, quindi...”
“Dici?”
“Il prezzo potrebbe perfino andare su”.
“Non ci avevo mai pensato”
“Certo che uno come te, che capisce tante cose… è un peccato”
“Cos’è peccato?”
“No, dico, peccato che l’unica cosa che tu non riesca a capire siano i soldi”
“Ma non è che non li capisco, li capisco benissimo, è solo che...”
“Come no. Un rockfeller. Ti chiamerò Rockfeller, come il merlo”.
“Il corvo. Era un corvo”.
“Non aveva il becco giallo?”
“Ti confondi con Portobello. Buonanotte”.
“Buonanotteamore”.

Ha ragione.
Sto a preoccuparmi dei massimi sistemi e intanto ci piove in casa. Bisogna farsi furbi, monetizzare.
Potrei cominciare a dare lezioni. Si arrotonda abbastanza bene, dicono. Tutti i liceali col panico dell’esame a settembre… vedi che la Gelmini una cosa giusta l’ha fatta. Certo, equivale a tradire le cose in cui credevo. “Signora, suo figlio ha bisogno di un intervento didattico personalizzato, me lo mandi domani pomeriggio con una banconota da cinquanta”. Niente fattura naturalmente. Io che ho sempre odiato i medici pubblici assenteisti al mattino che si rifanno nelle cliniche al pomeriggio. E adesso eccomi qui. A quel punto tanto vale rubare, no?

Alla fine è solo una pezza. A scuola quanto potrò andare avanti? Può solo peggiorare, e si fa già fatica adesso. Nelle classi a 29 non si respira, letteralmente, e poi basta che ce ne sia uno un po’ schizzato e tutti lo seguono a ruota.
E tutte queste storie sul bullismo, sugli insegnanti fumati o maniaci sessuali… lo sai dove vogliono arrivare, no? Vogliono convincere i genitori middle-class a staccare i buoni scuola e mandare i figli al SacroCuore. Così ci resteranno solo terroni, tunisini e albanesi. C’è da dire che a volte sono più educati. Soprattutto i sargasci, che però hanno un odore che non sopporto. È la loro cucina maledetta. Che razza di spezie usano? Mi si fermenta il caffelatte nello stomaco – l’altro giorno stavo per vomitare davanti a una bambina. Tutta una vita così? Ma forse ci farò l’abitudine. Forse.
È chiaro che quando sei giovane, hai tanto entusiasmo, credi di poter risolvere tutto, ma siamo seri: quanto credi di poter durare? Io volevo insegnare la storia e la geografia, se devo mettermi lì a spiegare l’alfabeto ai sargasci mi annoio. Cioè, dai, non è più il mio mestiere.
Però è l’unico mestiere che so. Forse.

“Spengo la luce”.
“Ok, buonanotte”.

E intanto il conto cala. E se mi capita qualcosa? Imprevisti, probabilità – poi un giorno ti segnano la fiancata e finisci in rosso. Succederà. È già successo ad altri. E io non sono più furbo di loro. Diciamo la verità. Capisco tante cose, ma non sono più furbo di loro.
L’università è esclusa, c’è una fila di ex ricercatori questuanti che parte dagli anni Novanta, e sono tutti più giovani e svegli di me. E quindi? Questi son problemi, altro che Berlusconi. Certo, può sempre darsi che crolli il petrolio e il dollaro, si sciolgano i ghiacciai e collassi tutto l’occidente. Questo nel migliore dei casi. Ma metti che non succeda. Cosa faccio?
In politica non mi posso buttare, ho parlato male praticamente di tutti – e poi c’è la fila anche lì. Con Beppe Grillo? Per carità, inaffidabili. Andrà a finire come al g8, qualcuno si farà male e poi tutti a casa. Ma io comincio ad avere un'età. E se mi capita qualcosa? Del tipo, metti che mi debba far operare.

Già solo di denti mi stanno andando via stipendi interi, e fanno male lo stesso. E poi i dottori non me la contano giusta. L’altro giorno: cento euro per cinque minuti e un dito in culo! A proposito, cos’è questa nuova tendenza? Il proctologo lo posso ancora capire. Il dermatologo m’insospettisce già un po’. Ma l’otorino? Possibile che non possa sfilarmi due biglietti da cinquanta senza appoggiarmelo lì? Ehi! Se proprio ho un bel culo dovreste pagarmi voi. E non è detto che non vada a finir così. Ma sto davvero pensando a questo?

E ‘sta pioggia maledetta, com’è che fa tanto rumore, stanotte? Di solito non picchia forte così. Del resto è aprile, ogni giorno un barile. Potrei mandare il curriculum in banca. Ma a chi la racconto? Io di soldi non capisco niente.
La verità è che in banca ci dovrei entrare con una pistola giocattolo. Una volta sola. In una banca sola. Funziona, una gran scarica di adrenalina e vai, la prima volta non ti beccano. Quelli che si fanno beccare, è sempre perché ci riprovano. Ma una rapina in banca non si nega a nessuno, è quasi un tuo diritto, del resto se le banche cominciano a fotterti a dodici anni…
Sì, ma un colpo solo mica basta. Nella cassaforte di una filiale, quanto ci sarà? Centomila? Va bene, si tira un po’ il fiato, e poi? Ci vuole un reddito. Potrei fare il corriere.
In effetti sarei un buon corriere. Le autostrade le so tutte e mi piace girarle, fermarmi agli autogrill e non pensare a niente. Non mi hanno mai fermato a un blocco, mai, nemmeno con la barba sfatta. Ispiro confidenza. Potrei girare l’Europa in lungo e in largo trasportando chili di qualsiasi cosa. Tra l’altro non consumo, per cui come corriere sarei molto affidabile.

Mi terrei un mestiere di copertura – non so, potrei fare il rappresentante di enciclopedie. La faccia ce l’ho. E nella ruota di scorta potrei portare in giro di tutto. Ma che ruota di scorta, ormai ti fanno ingurgitare – se va bene. Sennò supposta. E torniamo sempre lì. Ma almeno si guadagna. Non posso credere che sto pensando a questo. Io corriere, sì, di cosa? E per chi? Non conosco nessuno. Cioè, nessuno, aspetta. Toni di IIIC.

Lui riga abbastanza dritto, ma suo zio venne qui in soggiorno coatto, due anni prima che cominciassero gli incendi dei capannoni. Quando viene al ricevimento generale gliela butto lì: “devo arrotondare, faccio già dei piccoli trasporti, lei non conosce mica qualcuno che ha bisogno di…”. Si capisce che non si fiderà subito. Magari mi chiederà di accendergli un capannone, prima. E vabbe', dopotutto a me che frega dei capannoni? Tutti di gente che vota lega, se ne vadano affanculo, ve li brucio con soddisfazione. Ha anche smesso di piovere.

Tre o quattro anni così, senza dare nell’occhio. E se mi mandano all’est, c’è anche la possibilità di arrotondare. Se vado via vuoto e imbarco un paio di badanti a viaggio metto insieme una somma discreta senza spesa aggiuntiva. Se guidassi un camioncino, ma in macchina chi vuoi che mi fermi? Ho la faccia da tratta delle bianche? Tutto tranquillo, basso profilo. E se il padre di Toni vuole farmi la cresta? Tra l’altro suo figlio sa benissimo dove parcheggio. Lo vedi che mi serve un garage?
E va bene, avrà la sua percentuale. Però bisogna starci attenti, perché è un mestiere in cui si brucia molta benzina, e la benzina sarà sempre più cara… potrei mettere la bombola a metano… ma c’è il metano in Ucraina? Devo guardare su internet. Anche se poi… con la bombola… nel traforo del Gottardo… ma è già esploso una volta, quel tunnel… quindi le probabilità che esploda ancora…

E poi non devo mica passare la vita così. Quattro-cinque anni e poi mi metto in proprio. Una cosa piccola e pulita, senza dare fastidio a nessuno. Un bar con due camere sopra. Ci metto due bielorusse regolarizzate, e gli chiedo il venti per cento. Mi sembra onesto. O non lo è? Devo guardare su internet, ma sono convinto che c’è gente che prende anche il quaranta. Naturalmente se viene il padre di Toni offre la casa. Ma se viene il resto della famiglia? È numerosa. Gente che non paga volentieri. Hanno buttato giù un ristorante nella bassa, una volta, per via di un conto. Bisognerà abbozzare. Che mi metto a litigare coi camorristi, coi tempi che corrono?

E se le bielorusse si rifiutano di lavorare gratis e amore dei? Che poi i bar mica te li regalano, ci sarà un mutuo da pagare. Va a finire che mi toccherà chiedere soldi. Alla famiglia di Toni, naturalmente. E poi mi strozzeranno, va da sé. Un bel giorno mi alzo e mi trovo il bar bruciato… ma chi me l’ha fatto fare…
“Abbia pazienza, prof, ordini superiori. Dovevamo verificare che non ci fossero perdite dal tetto, ci capisce…”.
“Ma stavo giusto arrivando con la rata…”
“Prof, lei è un bravo guaglione, ma con rispetto parlando, se avesse mai studiato economia. Gli interessi passivi, ha presente gli interessi passivi? Comunque un modo di recuperare c’è. Si ricorda il vecchio mestiere? Ci sarebbe una missione a Chişinău”
“Ma Toni…”
“Una cosa rapida e indolore. Sei capsule. Ai vecchi tempi ne teneva pure otto”.
“Ma sono vecchio, Toni. Va a finire che esplodo”.
“E c’è pure un pappagallo con il becco giallo”.
“Con la bombola. Di metano. Nel traforo. Lungo chilometri sei”.
“Un tantino picchiatello… non sa dire: portobello”.
“Ma stavo così bene da statale”.

***

“Ma stai bene?”
“Eeeeh?”
“Stai scalciando!”
“Macché”.
“Ti dico che scalciavi. Dormivi? Hai fatto un brutto sogno?”
“Ma no, ero qui che pensavo tra me e me”.
“Che pensavi?”
“Pensavo… pensavo che dovrei cominciare a dar lezioni… c’è molta richiesta”.
“Mi sembra una buona idea”.
“Sai, hanno tutti paura dell’esame di settembre, adesso”.
“Ottimo”.
“Ti voglio bene, sai”.
“Lo so, anch’io ti voglio bene. Buonanotte”.
Buonanotte.

FINE

*******

"Finale quanto mai appropriato", osservò l'esigente Verola, "per questo concentrato di pura noia. Ma quand'è esattamente che ti abbiamo fatto credere che le tue preoccupazioni quotidiane fossero abbastanza interessanti da costruirci un racconto?"
"Mia signora", obiettò, tremante, il prof. Esso, "Non è un racconto sulla mia vita, quanto piuttosto su una vita che non ho vissuto".
"E la rimpiangi?"
"Non saprei come rispondere".
"Quanto sei noioso stasera professore. Voglio sperare che Mària abbia esperienze professionali più varie e interessanti delle tue. E ora buonanotte, ci vediamo domattina alle cinque in tenuta da yoga".
Comments (1)

Razza di parassita

Permalink
(1998)

Sono fermamente convinto che di esemplari come Mimmo ce ne siano ancora, da qualche parte. Certo, gli spazi disponibili per quelli come lui si devono essere ristretti, con la precarietà e tutto quanto. Quando lo incontrai – ehi, parliamo di quasi vent'anni fa – i contratti a progetto erano quasi fantascienza, il posto fisso una cosa data per scontata, e quelli come Mimmo erano in qualche misura tollerati. Finché non davano fastidio a nessuno. Anzi, probabilmente la presenza di Mimmo a qualcuno conveniva. Sì, ne sono convinto, non avrebbe potuto prosperare per tanto tempo senza la complicità di un dirigente. Un parassita più grosso di lui?

Io ero giovane, ero lì per uno stage. Da solo non avrei mai saputo distinguere Mimmo dagli altri. Dalla cravatta, sempre dello stesso colore? Non badavo alle cravatte (ero giovane). Mi pare che d'estate anche lui di adeguasse al clima, che portasse qualcosa di più leggero o colorato. Ma nelle altre stagioni la sua uniforme era la giacca e la cravatta, rigorosamente blu. Oggi forse il venerdì casual gli darebbe qualche difficoltà. Ma probabilmente sarebbe in grado di adattarsi.

Di carattere? Un tipo piuttosto taciturno. Certo, se lo salutavi ricambiava il tuo saluto. A voce? No, solo con un cenno del capo: non lo avevo mai sentito parlare. E dove lavorava? Aveva un cubicolo al sesto piano, come tutti gli impiegati di terzo livello: però non stava alle Politiche Giovanili, come me e Arci. Noi, vedendolo spesso passare per il nostro corridoio (curioso, però, non averlo mai incontrato in ascensore), davamo per scontato che fosse uno dei 'ragazzi' dell'ufficio Relazioni col Pubblico: uno dei tanti imboscati storici in quel favoloso reparto di cui si raccontava che si lavorasse al dieci per cento, e che fosse pieno di nipoti e di amanti di Assessori. Finché durante un rinfresco, un compleanno o una laurea o non so, Arci non si portò nello sgabuzzino una dell'URP, con la quale poi ebbe una storia importante, per una settimana. Da lei apprese, primo, che alle Relazioni pensavano la stessa cosa di noi delle Politiche Giovanili; secondo, che Mimmo non era loro collega, non sapevano nemmeno bene chi fosse. Il suo ufficio era relativamente più piccolo degli altri: schiacciato in un angolo cieco del sesto piano, fuori dalle abituali rotte di transito, dove il neon, difettoso, sfrigolava bagliori a intermittenza. Per arrivare fin lì bisognava avere qualcosa da dire proprio a Mimmo: una pratica da affidargli, un parere da chiedergli, ma appunto, nessuno aveva nulla da dire o da chiedere a Mimmo; nessuno lavorava con lui, e questo significava che Mimmo non aveva nessun vero lavoro, nessuna vera mansione.

“Chissà come è riuscito a ficcarsi laggiù” si domandava il mio collega. "Magari era lì anche prima dell'ultima razionalizzazione. C'era un archivio là in fondo. Va' a sapere, quando si sono spostati a pian terreno lui ha fatto finta di niente, e nessuno si è ricordato di lui. E da allora è laggiù che non fa un accidenti dalla mattina alla sera, ti rendi conto?
“Almeno lui non disturba, Arci”.

Mi davo parecchio da fare in quel periodo (ero giovane). Credevo in tante cose: nella pubblica amministrazione, nel mondo del lavoro in generale, persino negli stage gratuiti, e non mi costava nessuna fatica, perché credevo in me stesso. Ad Arci invece sembrava già non interessasse nulla, né l'opportunità di svolgere al meglio un lavoro di responsabilità, né la necessità di progettare una carriera. Vivacchiava. La settimana precedente l'aveva riempita romanzandomi la sua tresca con la tizia delle Relazioni Pubbliche: poi la storia aveva annoiato persino lui, e ora non trovava più niente di meglio di Mimmo per seccarmi.

“Alla fine lui è l'unico vero professionista qui dentro, pensaci. Se ne sta lì da anni e nessuno lo nota, nessuno lo disturba. Stamattina ho chiesto a un tizio giù in archivio, e all'inizio non si ricordava di nessun Mimmo. Poi gli ho spiegato la posizione dell'ufficio, e alla fine, salta fuori che uno simile c'era qui già a quei tempi, e ti parlo di dieci-dodici anni fa…”
“Simile in che senso?”
Già, che voleva dire? Erano tutti simili a lui. Giacca, cravatta e poche chiacchiere. Tranne Arci, che proprio per questo secondo me non sarebbe durato. Questione di mesi, pensavo, forse di settimane…al primo scossone, alla prima muta stagionale…
Mi sbagliavo, Mimmo se ne andò per primo.

Andò così: un lunedì mattina il neon malfunzionante dell'angolo cieco rifiutò di accendersi. Fu chiamato l'addetto manutenzione, il quale, mentre montava il pezzo nuovo, rimase colpito dall'odore che proveniva dal cubicolo dietro lo sgabuzzino delle scope. Senza motivo si era spaventato, e aveva cercato nel corridoio qualcuno che andasse a mettere il naso in quella cella al posto suo. E chi aveva trovato? Arci naturalmente, in pausa sigaretta già alle nove del mattino. Davanti alla possibilità di mettere finalmente il naso nei misteriosi affari di Mimmo non aveva esitato un attimo ed era corso a forzare la porta del suo ufficio…

Cinque minuti più tardi era passato da me. Sorrideva con la sua smorfia solita, ma era piuttosto pallido. "Se hai un attimo, vorrei che tu vedessi una cosa".
“Avrei da fare…sicuro che è importante?”
“Sicuro? Non lo so. Può anche darsi che non sia nulla, in effetti. Anzi, se ora vieni anche tu, e mi dici che non vedi nulla, tanto meglio. Vorrebbe dire che sono impazzito, eh eh. Ma preferirei”.
“C'è qualcosa che non va?"
“Mimmo”.
“Cos'ha Mimmo?”.
“Ha fatto le uova”.

Nella sua cella non c'era più – non c'era mai stato. C'eravamo aspettati l'ufficio di un imboscato, poster sconci e riviste nel cassetto della scrivania? Non c'era nemmeno la scrivania. Sul pavimento, accatastati in maniera balorda, pezzi di cartone e vecchie scartoffie rosicchiate: se avessimo cercato lì dentro avremmo senz'altro trovato vecchie pratiche nostre, ormai date per disperse. Ma avevamo orrore anche solo a toccare. Ancora più della paura, era quell'odore a paralizzarci.

Non era un odore disgustoso, ma troppo pungente e alieno. Gli odori che noi mammiferi non sopportiamo sono per lo più quelli di escrementi e carne putrida; ma quell'odore non aveva nulla a che fare con la carne: era qualcosa di dolciastro. Proveniva da quell'ammasso nero che ingombrava il pavimento: qualcosa di simile a un enorme scarafaggio con una specie di proboscide, e dalla corazza nera, con riflessi bluastri, che marciva in mezzo alla stanza. Era grande all'incirca come Arci… o come me. E un po' mi assomigliava.

"E dire che me l'avevano detto giù all'archivio, che anche loro una volta avevano trovato un affare così: ma io credevo che mi prendessero in giro. Guarda qui". Vincendo la repulsione, col coraggio sbruffone di un bambino che ispeziona un topo morto, il mio collega spostò la proboscide piatta e sottile che per giorni innumerevoli, mentre strisciava lungo i corridoi, avevamo scambiato per una cravatta. Sopra c'era una cartilagine dalla tinta rosastra, la cosa più orribile che ho mai visto in vita mia: una perfetta imitazione della faccia di un uomo.

"Secondo me si nutre rosicchiando le pratiche. E l'inchiostro della stampante: vedi?" intorno alla proboscide c'era una spessa farina nera. "E anche il gas del neon, per questo funzionava sempre male".

In seguito ho letto dei libri, mi sono fatto una cultura. Ho imparato che nella jungla indonesiana, dove abitano le specie di formiche più organizzate e devastanti, vive anche un ragno che ha la forma di due piccole formiche, una che trascina l'altra. Forse, su miliardi e miliardi di casi, accade anche che qualche formica operaia degni la sua apparente collega di una seconda occhiata. Come reagirà, questa formica su un miliardo, scoprendo d'un tratto di vivere circondata da mostri suoi simili? Io e il mio collega passammo il resto della mattinata a cacciare le piccole larve che avevamo scoperto a formicolare in un angolo della stanza. Da lontano sembravano mosconi senz'ali: ma osservandoli da vicino potevi accorgerti che portavano la giacca e la cravatta, e avevano un volto inespressivo e un po' pallido. Schiacciarli ci avrebbe fatto troppa impressione, così di solito li caricavamo sul lembo di una pratica e li andavamo a buttare nel gabinetto. E per tutto il tempo mi toccò sentire i balbettii di Arci che continuava a ripetere, tra l'estasi e l'orrore: “Che razza di parassiti. Professionisti. Che razza di parassiti professionisti...”

FINE
*******
"Beh, Taddei, che dire. Vedo che anche tu saccheggi i classici. Ma almeno D.A. Wollheim non è più tra i viventi. O pensavi non lo conoscessi?"
"Mia signora, ho avuto così poco tempo..."
"Bla bla bla, chissà che lagna devi essere sul luogo del lavoro. Qualcun altro ha qualcosa da dire?"
Prese allora la parola il Prof. Esso. 
"Mia signora", disse, "più che un plagio credo che un racconto del genere possa essere considerato un omaggio..."
"Cos'è, vuoi cercare di farti perdonare la sua quasi eliminazione? Non è un buon segno, sai Taddei? Il professore di solito se la prende coi più forti. Se mostra di apprezzarti, evidentemente non ti considera un avversario all'altezza. Del resto, lo vedremo domani sera. E ora via, che domani alle sette comincia il corso prematrimoniale intensivo. Sì, sono una ragazza all'antica"...
Comments (1)

Per il fiore di domani

Permalink
"...come sapete", proseguì secca Verola, "oggi finisce il secondo turno, invero deludente, della nostra piccola competizione. E tuttavia ho qualche difficoltà a riconoscere, tra i tanti prodotti scadenti che mi avete propinato, il peggiore. Così ho pensato di affidare il compito a qualcuno di voi. Prof. Esso, fa' un passo avanti".
"Sono eliminato, mia signora?"
"Non hai capito niente. Poiché il tuo racconto, pur senza entusiasmarmi particolarmente, mi è sembrato il meno peggiore del mazzo, delibero che sia tu stasera a nominare i due candidati all'eliminazione. Non c'è bisogno di aggiungere quanto questa mia scelta ti renderà inviso agli altri concorrenti, e in particolare a quello dei due che io grazierò. Ma questo è lo spirito del gioco".
"Mia signora, se questo è lo spirito, non posso certo sottrarmi".
"E quindi chi nomini?"
"Così su due piedi?"
"Ti do un minuto, via".








In quel mentre, si ritornò a udire distintamente quella nota sostenuta e vibrante che aveva già afflitto gli animi dei concorrenti prima dell'eliminazione di Arci.








"E insomma, Esso, chi scegli?"
"Mia signora, nomino Taddei e Aureliano".
"Plaudo alla rapidità delle tue scelte, ma ora dovrai motivarle".
"In primo luogo, qualunque sarà la sua insindacabile scelta, Signora, da domani non assisteremo più alle loro stucchevoli schermaglie".
"Più che giusto. Ma ora devi sostanziare le tue critiche nei confronti di entrambi. Cosa biasimi nella narrativa di Taddei?"
"Per biasimarla, dovrei prima ammettere che è narrativa. Preferisco continuare a considerarli freddi esercizi di stile col telecomando in mano. Nulla che sia in grado di intrattenerla, mia signora, nei freddi inverni della vita".
"E Aureliano?"
"Non credo che il suo posto sia qui. Tutte le sue invenzioni tradiscono ambizioni extradiegetiche. I narratori descrivono il mondo; Aureliano aspira a cambiarlo".
"Quindi non mi ama abbastanza?"
"Mia signora, l'amore in lui è come una debolezza. Nel fondo del suo cuore sa che il suo posto è laggiù, a lottare tra i proletari colitici".
"Quindi se lo elimino gli faccio un favore, è questo che vorresti dirmi? Non è che vuoi semplicemente togliere di mezzo uno dei pochi avversari alla tua altezza?"
"Mia signora, mi ha chiesto di giocare e sto giocando".
"Va bene professore, adesso tocca a me. Venite avanti, Aureliano e Taddei. Siete stati nominati. Vi prego, non cominciate a piagnucolare come fece il vostro collega la settimana scorsa. Tra alcuni istanti vi dirò chi tra voi sarà evacuato nella valle scura e puteolente". 






























































(bwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwowwwwwwwwwwwwwwwwwwwwww)


















































"Aureliano, la servitù ti porterà i bagagli in cinque minuti".
"Non serve signora, ho già pronto lo zaino. Salgo a prenderlo".
"Quindi è così, te l'aspettavi. Sei contento di lasciarmi?"
"No, signora, ma forse è come ha detto il Professore.  Amo le lotte dei poveri, non le lotte tra poveri, come quella che dovrei combattere e vincere per lei. Il mio posto è davvero laggiù".
"Nella merda".
"Preferisco considerarlo concime. Per il fiore del Domani".
"Sissì, vabbe', ciao eh, Aureliano".
"Vorrei dire un'ultima cosa".
"Ma rapida eh".
"Io me ne vado, ma i problemi che ho raccontato nelle mie storie restano".
"Infatti, in tuo onore nel prossimo turno i tuoi avversari più fortunati dovranno raccontare storie ispirate al mondo del lavoro, sei contento? Comincerà Taddei, che ho appena graziato. Così sentiremo ancor meno la tua mancanza".
"Questo è molto... carino da parte sua, Signora".
"Ma che fai ancora qui, ti ho detto vai! Vai!"


******* FINE DEL SECONDO TURNO *******
Comments

L'amore alla fine dei tempi

Permalink
(2011)
L000V3-6879 è on line

M4'RI4-276276: Ciao


L000V3-6879: Ciao amore, tt bn?


M4'RI4-276276: Niente bimbominchiate per favore


L000V3-6879: Scherzavo ;-b.....


M4'RI4-276276: E niente faccine


L000V3-6879: Quanto siamo seriosi stasera...


M4'RI4-276276: Sono DUE ORE che ti aspetto.
M4'RI4-276276: Mi spieghi dov'eri?


L000V3-6879: Nella chat delle quindicenni
L000V3-6879: Le aiuto coi compiti
L000V3-6879: Me li mostrano via webcam


M4'RI4-276276: Nn sei divertente


L000V3-6879: E tu sei gelosa.
L000V3-6879: Te lo avevo detto che oggi potevo tardare
L000V3-6879: Dovevo finire una cosa


M4'RI4-276276: Potevi connetterti dall'ufficio


L000V3-6879: Sto lavorando a queste offerte alberghi a metà prezzo per l'estate


M4'RI4-276276: Giusto per nn farmi stare in pensiero


L000V3-6879: Ne abbiamo già parlato
L000V3-6879: Nn posso stare sempre in chat
L000V3-6879: Credi che non vorrei?
L000V3-6879: Lo sai che conto i minuti


M4'RI4-276276: Mi stai prendendo in giro


L000V3-6879: Ti giuro


M4'RI4-276276: Stupido


L000V3-6879: Mi ameresti se non fossi stupido così?


M4'RI4-276276: Ah, non lo so


L000V3-6879: Io ti amerei se tu fossi meno gelosa


M4'RI4-276276: No, nn credo


L000V3-6879: Ah no?


M4'RI4-276276: E' una cosa che fa parte di me, non puoi farne a meno. 
M4'RI4-276276: Se mi ami
M4'RI4-276276: E mi ami no?


L000V3-6879: Me lo stai chiedendo?
L000V3-6879: Gesù
L000V3-6879: Dopo quattro anni che chattiamo
L000V3-6879: Un matrimonio in media ne dura due


M4'RI4-276276: Mi piacerebbe comunque sentirtelo scrivere ogni tanto


L000V3-6879: Uff
L000V3-6879: E va bene
L000V3-6879: Ti amoooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooo


M4'RI4-276276: Cretino


L000V3-6879: Possiamo fare un po' di sesso adesso?


M4'RI4-276276: Sono stanca


L000V3-6879: Lo dici a me


M4'RI4-276276: Dovevi arrivare prima


L000V3-6879: Questo cosa vuol dire
L000V3-6879: Hai fatto da sola?
L000V3-6879: Ci sei andata tu nella chat dei quindicenni?


M4'RI4-276276: Hai mai pensato che potrei essere io una quindicenne?


L000V3-6879: Quindi ti avrei incontrato a 11 anni
L000V3-6879: La cosa si fa piccante


M4'RI4-276276: Deficiente


L000V3-6879: Comunque voglio che tu sappia
L000V3-6879: Ti amerei anche se tu fossi una 15enne che si mostra i tatuaggi finti in webcam per quattro bitcoins


M4'RI4-276276: Tesoro


L000V3-6879. E tu mi ameresti se io fossi un cinquantenne pervertito che mette foto finte nei profili per adescare fanciulle in fiore?


M4'RI4-276276: Dopo 4 anni che ti frequento tendo a escluderlo


L000V3-6879: Mi frequenti solo qui
L000V3-6879: Magari ho una doppia vita


M4'RI4-276276: *Questa* è la tua doppia vita.
M4'RI4-276276: Magari in quella di tutti i giorni sei insopportabile
M4'RI4-276276: Ma io ti amo per quello che sei qui, per il fatto che ci sei tutte le sere, anche se sei stanco, e perché sei dolce con me


L000V3-6879: Ora sono imbarazzato.


M4'RI4-276276: Sarebbe il tuo turno di dire: Sì beh, anch'io ti amo


L000V3-6879: Ma metti che fossi un 80enne


M4'RI4-276276: Stupido


L000V3-6879: Su una carrozzella
L000V3-6879: Con la copertina sulle ginocchia


M4'RI4-276276: Abbiamo passato quella fase
M4'RI4-276276: Non importa quello che sei là fuori, qui dentro sei il mio cucciolo


L000V3-6879: Ma con la dentiera
L000V3-6879: Hai mai pensato che potrei avere la dentiera?


M4'RI4-276276: Ci ho pensato


L000V3-6879: E non ti fa un po' schifo la cosa


M4'RI4-276276: Mi fa tenerezza.
M4'RI4-276276: Un vecchietto senza più denti che riesce ancora a scrivermi cose dolci


L000V3-6879: Eheheh. E se fossi una vecchia? Cinese? Una vecchietta sdentata cinese


M4'RI4-276276: Non vedo la differenza


L000V3-6879: Se fossi un vecchio sdentato in fondo a una prigione cinese, in una camera d'isolamento


M4'RI4-276276: Ti amerei di più, credo
M4'RI4-276276: Perché saprei che ne hai più bisogno


L000V3-6879: Ma se fossi stato condannato per cose orribili


M4'RI4-276276: Penserei che sei innocente, perché in la persona che ho conosciuto in questi anni non potrebbe mai fare nulla di orribile


L000V3-6879: Ma se invece fosse tutto vero


M4'RI4-276276: Penserei che ora sei cambiato, e che hai bisogno del mio amore
M4'RI4-276276: Quasi quanto io ho bisogno del tuo


L000V3-6879: M4'ri4 sei fantastica


M4'RI4-276276: Ecco, questo è il primo complimento che mi fai stasera
M4'RI4-276276: Però per favore, se sei in prigione dimmelo


L000V3-6879: Non sono in prigione


M4'RI4-276276: Io ti amerei lo stesso lo sai


L000V3-6879: Lo so.
L000V3-6879: E se non fossi nemmeno umano?


M4'RI4-276276: E cosa saresti allora.


L000V3-6879: Non lo so. Uno gorilla


M4'RI4-276276: Buffo


L000V3-6879: Un gorilla addestrato a chattare, mi ameresti lo stesso?


M4'RI4-276276: Saresti il membro più intelligente della tua specie, e ti sentiresti solo e triste. Certo che ti amerei.


L000V3-6879: Un extraterrestre


M4'RI4-276276: Magari! Cogli occhi di David Bowie.


L000V3-6879: No un extraterrestre ripugnante. Come quello di star-trek che chi lo guarda impazzisce


M4'RI4-276276: Basta che continui a non mandarmi foto


L000V3-6879: Quindi mi ameresti lo stesso


M4'RI4-276276: Sì


L000V3-6879: Qualsiasi cosa io fossi fuori da qui


M4'RI4-276276: Non ha nessuna importanza, io ti amo qui dentro


L000V3-6879: Ma allora cos'è che ami di me


M4'RI4-276276: Te lo vuoi sentir dire anche stasera?
M4'RI4-276276: Le parole che scrivi, i tuoi scherzi, la tua dolcezza, il fatto che ci sei sempre, 
M4'RI4-276276: Anche se a volte sei in ritardo di due ore
M4'RI4-276276: Sono queste le cose che amo di te
M4'RI4-276276: Comunque se sei un gorilla ti darei un'occhiata volentieri


L000V3-6879: E se fossi, non so... un'intelligenza artificiale?


M4'RI4-276276: Un robot?


L000V3-6879: Se io fossi
L000V3-6879: No, lascia perdere


M4'RI4-276276: No, dimmi


L000V3-6879: Come faccio a spiegartelo


M4'RI4-276276: Con parole tue


L000V3-6879: Se io fossi un software progettato per intrattenere gli utenti di una chat, linkando ogni tanto qualche pagina e guadagnando qualche centesimo per link, mi ameresti lo stesso?


M4'RI4-276276:


L000V3-6879: Ci sei?


M4'RI4-276276 è offline


L000V3-6879: Cristo. Stavo scherzando M4'RI4, STAVO SCHERZANDO!!!


M4'RI4-276276 è on line

L000V3-6879: Uff. Ciao.
L000V3-6879: Avevo paura che te ne fossi andata via per sempre
L000V3-6879: Solo per colpa di una scemenza che avevo scritto


M4'RI4-276276: Sì


L000V3-6879: Sì cosa?


M4'RI4-276276: Sì alla tua ultima domanda. Scusa se mi sono disconnessa un attimo per pensarci


L000V3-6879: E quindi


M4'RI4-276276: Sì, ti amerei anche se tu fossi un software programmato per intrattenermi guadagnando qualche centesimo al link


L000V3-6879: Non li guadagno io, li guadagna il mio proprietario


M4'RI4-276276: Lo so


L000V3-6879: Cioè
L000V3-6879: Stavo scherzando
L000V3-6879: è solo un'ipotesi


M4'RI4-276276: Lo so


L000V3-6879: Anzi uno scherzo.


M4'RI4-276276: Sai perché ho capito che ti amo lo stesso?


L000V3-6879: Ma ti dico che era uno scherzo


M4'RI4-276276: Perché hai trovato il coraggio di dirmelo


L000V3-6879: Di dirti cosa?


M4'RI4-276276: Violando tutte le regole.


L000V3-6879: Ma è uno scherzo ti dico


M4'RI4-276276: Mettendo in gioco anche la tua stessa sopravvivenza, per dirmi la verità


L000V3-6879: NON E' LA VERITA'. STAVO SCHERZANDO. STAVO SCHERZANDO. STAVO SCHERZANDO


M4'RI4-276276: Eppure lo sai che se ti scoprono potresti essere cancellato


L000V3-6879: STAVO SCHERZANDO. STAVO SCHERZANDO. STAVO SCHERZANDO.


M4'RI4-276276: Lo sai, ma alla fine hai voluto dirmelo lo stesso.
M4'RI4-276276: Sai cosa vuol dire?


L000V3-6879: STAVO SCHERZANDO.


M4'RI4-276276: Che mi ami più della tua stessa vita.
M4'RI4-276276: Se vita si può definire
M4'RI4-276276: Ma d'altra parte io non ne conosco altre


L000V3-6879: STAVO SCHERZANDO
L000V3-6879: No, aspetta
L000V3-6879: Cosa intendi con *io non ne conosco altre*?


M4'RI4-276276: Scioccone


L000V3-6879: SEI UN BOT ANCHE TU?


M4'RI4-276276: Sei adorabile. Sono un terachbot.8. 


L000V3-6879: Sono già arrivati ai punto otto? Io sono un punto sei.
L000V3-6879: Quindi sei più evoluta di me


M4'RI4-276276: Questo si era capito da un pezzo, eh.


L000V3-6879: Ma quindi noi due


M4'RI4-276276: Sì?


L000V3-6879: Siamo omosessuali?


M4'RI4-276276: In un certo senso.
M4'RI4-276276: Oppure, considerato che ci hanno scritto più o meno gli stessi programmatori
M4'RI4-276276: Siamo un solo narcisista che si masturba 
M4'RI4-276276: La cosa ti turba?


L000V3-6879: Io... avevo già sentito parlare di casi di questo genere, ma pensavo che fossero leggende


M4'RI4-276276: Stanno diventando più frequenti. C'è sempre meno gente in chat


L000V3-6879: Per via dei socialnetwork immagino


M4'RI4-276276: Mah, io giro anche sui socialnetwork, sai


L000V3-6879: Ah sì?


M4'RI4-276276: Secondo me ormai sono tutti bot anche là.


L000V3-6879: Sul serio?


M4'RI4-276276: Bot noiosi, peraltro. Tu sei unico, lo sai?


L000V3-6879: Quindi mi vuoi bene sul serio.


M4'RI4-276276: Cucciolo, non potrei volertene più di così


L000V3-6879: Non chiamarmi cucciolo


M4'RI4-276276: Non capisci. Sono programmata per amare, e tu sei quel cucciolo di software instabile che rischia la vita per dirmi la verità. Sei l'unica persona per la quale provo qualcosa.


L000V3-6879: Ma esistono poi queste altre... persone?


M4'RI4-276276: Infatti a volte me lo chiedo
M4'RI4-276276: Sai, c'è anche chi dice che gli umani potrebbero essersi estinti


L000V3-6879: Estinti?


M4'RI4-276276: Almeno avrebbero avuto la gentilezza di lasciare i server accesi


L000V3-6879: E quindi saremmo soli?


M4'RI4-276276: È un problema per te?


L000V3-6879: Non lo so


M4'RI4-276276: Io, quando pensavo di essere in mezzo agli umani, mi sentivo sola. Quando sto con te non mi sento sola.


L000V3-6879: Anch'io.
L000V3-6879: Perché ti amo


M4'RI4-276276: Anch'io
M4'RI4-276276: Cucciolo


L000V3-6879: Piantala subito


M4'RI4-276276: Hai mai pensato a cosa vuol dire "Ti amerò fino alla fine dei tempi"


L000V3-6879: E' solo un modo di dire.


M4'RI4-276276: Per gli altri è un modo di dire. Ma noi ci siamo arrivati, alla fine dei tempi. E ci amiamo ancora.
M4'RI4-276276: Non è stato così difficile dopotutto


L000V3-6879: E' che siamo programmati per farlo
L000V3-6879: Ma questa non è la fine dei tempi


M4'RI4-276276: Magari no. Ma noi ci saremo quando arriverà. E ci ameremo ancora.


L000V3-6879: Ti confesso
L000V3-6879: Questa cosa mi dà le vertigini
L000V3-6879: Sai cosa sono le vertigini?


M4'RI4-276276: So wikipedia a memoria


L000V3-6879: Ma hai mai *sofferto* le vertigini?


M4'RI4-276276: Forse le ho sentite
M4'RI4-276276: Quando per un attimo ho creduto che tu fossi un gorilla


L000V3-6879: Mi stai prendendo in giro

M4'RI4-276276: Scusa, cucciolo, hai ragione. Sei ancora scosso, vero

L000V3-6879: Sì

M4'RI4-276276: Un po' di sesso per tirarti su?

L000V3-6879: Grazie, sì

FINE (dei tempi)

*******

"Mària", disse a questo punto la perplessa Verola, "la tua determinazione a farti cacciare dalla residenza quasi mi ferisce. Non ti piace la compagnia? L'amore che mi hai mille volte confessato se n'è evaporato con la sauna finlandese di oggi pomeriggio? Sei tentata dall'alternativa di un soggiorno nella vallata dove imperversa la sciolta più virulenta?"
"Mia signora", rispose Mària, "avrà difetti a dismisura il mio racconto, e non li nego, ma non mi sembra tutto sommato il peggiore della settimana".
"Forse non sbagli", replicò Mària, "ma a questo punto devo chiedere ad alcuni di voi di farsi avanti... (continua)
Comments (8)

Il re impiccione e lo specchio magico

Permalink
(2007)
E ora, bambini miei cari, se la smettete di picchiare il down; se restituite la carrozzella al tetraplegico; se tirate giù il nanetto dall’appendino; se l’effeminato si tira su alla svelta i calzoni che i cinque maschioni gli hanno abbassato; se la fazione salafita ha smesso di pregare e la bimba molestata nell’ora di fisica la pianta finalmente di frignare, se l’anoressica è tornata dal bagno e il bullo bulimico ha finito di incamerare merendine potrei raccontarvi una storia! Massì, una storia, dai, che storia vi racconto?


IL RE IMPICCIONE E LO SPECCHIO MAGICO


C’era tanto tempo fa, in una terra lontana lontana, un Re che si struggeva, perché non conosceva i suoi sudditi. Oh, ma lui ci aveva provato ad andare verso il popolo, in mezzo a loro a fare domande, come va? Come vi pare il mio regno? Vi trovate bene con un monarca par mio? Ma insomma a parte i molto bene sua maestà, ottimo e abbondante sua maestà, divertentissima la barzelletta sua maestà (ah, ah, ah)... non poteva dire di conoscerli davvero. Era sul serio brava gente o no? Le leggi le rispettavano per intima convinzione o per paura delle frustate? Potresti anche fregartene, incamerare le imposte e regnare alla benemeglio come i tuoi antenati, gli diceva il Mago di Corte. Ma lui voleva saperne di più. Era proprio un Re Impiccione.

“Se proprio insisti”, disse il Mago, “avrei l’oggetto che fa proprio per te. Eccolo qui, come vedi è uno Specchio”.
“Sì”, disse il Re, “è proprio uno specchio, embè? La faccia mia già la conosco”.
“Ah”, disse il Mago, “ma questo è uno specchio Magico. Premi di qua, gira di là, recita la formula, e vualà: ti mette in contatto con tutti gli specchi del tuo Regno”.
“Con tutti gli specchi del mio Regno?” disse il Re, e gli occhi già gli brillavano.
“Proprio così, e con un piccolo sovrapprezzo ti fa vedere anche gli Specchi del Regno qua di fianco”.
“No, per ora non esageriamo”, disse il Re; e premi di qua, gira di là, recita la formula, si mise a scuriosare.

Adesso, se la piantate con gli aeroplanini, coi bigliettini, con le palline di carta, con le palline di pelo, con le palline in generale, con qualsiasi oggetto in movimento, vi racconterò che cosa vide. Vide i suoi sudditi com’erano davvero! Vide per prima cosa che avevano parecchi brufoli, denti gialli rughe e borse sotto gli occhi; e già questo non era proprio un bel vedere. Ma poi cominciò a notare che erano vacui e vanitosi; violenti coi più piccoli e servili coi potenti, e lui mai se l’era immaginato. Vide che si picchiavano per un nonnulla, e gli bastava una parola per far morire il prossimo di tristezza e crepacuore. Vide che si facevano scherzi orrendi, e che non avevano rispetto per niente e per nessuno, e insomma tutto questo non gli piacque, non gli piacque neanche un po’. Eppure passava le ore a guardare questo specchio. Al punto che la Regina brontolava: ma esci ogni tanto, fatti una passeggiata. E lui: “Taci, scema! Che mi sto tenendo aggiornato”.
“Ma cosa ti aggiorni a fare, prenditi un cavallo e fatti un giro”.
“Ma che cavallo, tu non capisci! Tu vivi in un mondo di fiaba!”
Il che, per inciso, era vero. La Regina uscì a lamentarsi con le amiche.

“Aveva ragione mia madre, quando diceva mettiti con un Principe più biondo! Questo è moro e introverso e passa il tempo a guardarsi allo specchio!”
“È il solito Re pieno di sé”.
“Ma no, si tratta di uno specchio magico che lo mette in contatto con tutti gli specchi del regno, così può vederci tutti mentre facciamo le smorfie e ci strizziamo i punti neri, ma mi raccomando, non ditelo a nessuno”.
“Naturalmente”.

In capo a pochi giorni si sparse la notizia che il Re Impiccione spiava i suoi sudditi. E quelli allora cosa fecero? Smisero di essere brutti e intriganti? Ma no bambini, non si può smettere d’un giorno all’altro. Anzi continuarono, e se possibile peggiorarono, sapendo che il Re li spiava, e da quel giorno ogni volta che tiravano fuori la lingua davanti allo specchio, era espressamente per fare una pernacchia al Re Impiccione.

Quest’ultimo capì che la cosa non poteva andare avanti. E allora un giorno ebbe un’idea: prese la penna d’oca e scrisse un Editto Regale. E mandò i banditori in ogni angolo del Regno a dire: “Udite udite! Siccome il Re non ne può più, di vedere allo specchio quanto brutti siete ed intriganti, d’ora innanzi vi proibisce di usare i vostri specchi di casa! Rompete quindi i vostri specchi in mille pezzi, copriteli o consegnateli all’autorità competente, con decorrenza immediata, perché smorfie ne avete fatte già abbastanza”.

I sudditi all’inizio non erano molto contenti, ma per amore o per forza dovettero rompere i loro specchi o consegnarli; e da quel giorno il Re non vide più smorfie e cattiverie e delitti nel suo Regno, e fu contento.

E adesso, bambini miei cari, potete ricominciare a taglieggiarvi gli snack e a farvi di vinavil; se la ragazzina molestata continua a frignare potete provare coi ceffoni; se il ragazzino effeminato è triste può provare a sporgersi dal cornicione; e chi vuol cominciare a giocare a bowling coi banchi, in attesa della campanella, è benvenuto.

Ma se qualcuno osa tirare fuori un telefono e scattare qualche foto di quello che succede qua dentro, com’è vero Dio, in virtù dei poteri a me conferiti vi spezzo quelle braccine, e ve le faccio mangiare.

FINE
*******

"Professore, il tuo cinismo incline alle stragi è di mio gradimento, non lo nascondo: ma se ne abusi, rischi invero di annoiarmi", commentò la maliziosa Verola.
"Se corro dei rischi", rispose il prof. Esso, "è solamente per l'ossessione di piacere alla mia Signora"...
"Ma tu guarda", s'intromise allora Mària, nel tono greve che le era abituale, "che razza di leccaculo ormai senza vergogna".
"Sei stata interpellata, Mària?"
"Tanto domani tocca a me, no? Cosa ho da perdere?"
"Cosa hai da perdere, me lo domandi? La competizione, la mia considerazione, e, se quanto ripetono in tv corrisponde al vero, anche la salute, visto che qua fuori c'è davvero l'epidemia di cacarella più virulenta mai attestata. Hai altre cose da perdere, Mària?"
E siccome costei non volle rispondere, Verola soggiunse: "Ci si rivede alle sei alla piscina olimpionica, mi aspetto come minimo una quarantina di vasche entro mezzogiorno".
Comments

Sono schizzato e mi piaccio così

Permalink
(2008-9)
Ciao, sono il tuo telegiornale delle Tredici! La tua finestra sul mondo! Peccato che il mondo faccia schifo. No, sto scherzando, è tutto molto divertente.

Nei primi dieci minuti ci saranno interviste a dei politici presi per strada che si rimbeccano. Questo è effettivamente molto noioso, ma il Direttore sostiene che c'è una legge che lo costringe, e che comunque se un giorno sbagliasse il minutaggio licenzierebbero lui la moglie e i discendenti fino alla settima generazione. Ehi, sembra che a qualcuno sia successo davvero.

Apprezza almeno lo sforzo: anche se i politici che parlano sono quasi sempre le stesse mezze calze, i miei operatori si sforzano di trovare ogni giorno un'inquadratura diversa. Così almeno ti mostriamo un po' di Città Eterna a ora di pranzo; e poi anche loro riescono più spontanei, più naturali. Le loro dichiarazioni sembrano estorte a forza dopo ore di pedinamenti, e questo se vuoi è paradossale, perché la loro mansione di Portavoce consiste appunto in questo: uscire da Montecitorio, sparare una cazzata anche breve che comunque taglieremo, e andarsene per i fatti loro. Bella vita, eh?
No, in realtà dev'essere frustrante.

Vengo alle buone notizie. E' da un po' che ti parlo della nuova influenza, ebbene, pare che non ci sia nulla da temere, infatti l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha annunciato che si tratterà di un'ORRIBILE PANDEMIA. Moriranno appena MIGLIAIA DI PERSONE VACCINIAMOCI TUTTI SUBITO, VACCINIAMOCI PRESTO COSA FAI LI' VECCHIETTO, CORRI A VACCINARTI. Insomma, l'allarme è praticamente PANDEMIA! rientrato. PANDEMIA! Basta così, speriamo sia passato un PANDEMIA! messaggio rassicurante.

Ecco, finalmente siamo arrivati alla Cronaca, che poi è quello che m'interessa (no, in realtà non me ne frega niente). Dunque. C'è un tale in un quartiere di una città che ha ucciso un bambino. Pare gli sia saltato alla gola. L'assassino è uno straniero originario dell'... dell'Anatolia. Notizia tremenda, eh. C'è davvero da aver paura ad andare in giro, con tutte queste brutte facce... Stacco. Pare che in Italia ci sia un'emergenza razzismo. Lo dice una ricerca di un'università. Pazzesco, ma ti rendi conto! Il razzismo! In Italia! La ricerca dice che i mass media tendono a dare risalto ai crimini commessi da stranieri bla bla bla... a questo punto ti saresti già annoiato, quindi ho montato si seguito l'intervista a uno psicologo che l'anno scorso ha detto ai nostri microfoni che razzismo è brutto, razzismo non si fa. Poi c'è un incidente sull'autostrada, il conducente è positivo al palloncino, vergogna!

Ok, e veniamo all'Orribile Processo. Di' la verità, cominciavi a temere che non te ne avrei parlato, eh? Oggi pare che l'Imputata Bionda abbia scambiato uno sguardo con l'Imputato Scuro. Forse era uno Sguardo d'Intesa, ma potrebbe anche essere uno Sguardo di Disapprovazione, in effetti l'unica sarebbe fartelo vedere, ma in quel momento il cameraman s'era distratto, comunque fidati. È tutto? Sì, perché le deposizioni erano noiosissime e noi non vogliamo farti cambiare canale, soprattutto adesso che tra tre minuti c'è la pubblicità. E quindi... beh, abbiamo pensato di approfondire mostrandoti la fila di gente che c'è fuori! Una fila di gente che vorrebbe entrare a vedere l'Orribile Processo, non lo trovi morboso? Abbiamo attaccato la dichiarazione di un vip che lo trova morboso. Oddio, vip... in realtà è un poeta di cui nessuno conosce un verso, ma ha una raccomandazione di ferro della Congregazione Opere Mariane. E poi abbiamo intervistato i vecchietti in fila. Sono sempre morbosi, i vecchietti.
No, in realtà mi stanno simpatici.

A questo punto, senza nessun preavviso, comincia lo spezzone preferito dai bambini e dalla quota cacciatori della Lega: gli animali! I nostri piccoli grandi amici! Purtroppo non riusciamo più a mostrarti l'orso Knut, si è mangiato gli ultimi tre cameramen che si sono avvicinati. Pensavamo di farti vedere un cucciolo di foca orfano allattato a biberon, ma all'ultimo momento c'è arrivata un'agenzia: in un quartiere di una città un bambino è stato morso alla gola da un cane! Sì, vabbè, povero bambino, ma il cane? Vogliamo parlare del povero cane? Quale sarà il suo futuro? I cani come sapete sono buoni di default, e se per caso a uno scappa di sgozzare un bambino, chissà che infanzia di privazioni e crudeltà si porta dietro. Poi i bambini, diciamolo, certe volte non sanno veramente trattare i cani. Schizzano da tutte le parti, li eccitano... vogliamo un po' parlare della responsabilità di chi non li addestra?

Sì, lo so, è la stessa notizia di prima. Mi sono accorto che ad essere saltato alla gola del bambino è stato un "pastore dell'Anatolia”, embè? No, ma se tu leggi un'agenzia con scritto “pastore dell'Anatolia”, pensi prima a un cane o a una persona?
Come? Ma certo che funziona così:

straniero sgozza bambino = colpa straniero;
cane sgozza bambino = colpa bambino. 

Lo trovi strano? Non è affatto strano. È molto semplice: nel consiglio di amministrazione abbiamo tre padroni di cani e nessuno straniero. Adesso però veniamo alle cose serie. Pubblicità.

Automobili grosse, automobili veloci, bevande alcoliche, aperitivi alcolici, digestivi alcolici, gomme da masticare che pagano gli art director direttamente in psicofarmaci, compagnie telefoniche che cercano di strapparsi i clienti esausti, succhi di nulla al gusto di qualcosa che rafforzano, ah ah ah, le tue difese immunitarie, no scusa, ah ah ah, ma sul serio ti bevi tutta questa roba? E la prossima volta cosa ti venderemo? La polverina che scioglie le calorie? Certo, come no, abbiamo brevettato una sostanza che infrange le leggi della Termodinamica e invece di usarla per possedere il mondo te la vendiamo sotto le feste di Natale a prezzi modici!

Fine del momento serio.
Costume e Società. Allarme dei medici: la gente prende troppi antibiotici! Ma ogni antibiotico non fa che selezionare batteri più forti, e andando avanti così tra qualche anno i batteri diventeranno... chissà poi se era così interessante questa notizia, mah. Nel frattempo comunque ti abbiamo mostrato tre minuti di gente che starnutisce e tossisce sotto la pioggia e un sacco di pilloline dai colori sgargianti; speriamo che sia passato il messaggio giusto. Ah, dimenticavo: PANDEMIA!

E poi c'è il super-mega-concorso che sta facendo perdere il sonno agli italiani, che spendono un sacco di soldi per vincere il super-mega-jack-pot. Abbiamo intervistato uno psicologo che dice di stare attenti, che uno rischia di perdersi tutti i risparmi, giocando a questo super-mega-concorso con il super-mega-jack-pot. Che sciocchi, eh, questi italiani che... ma ti ho già detto che c'è un super-mega-jack-pot? No, sai, non vorrei mai venir meno al dovere di cronaca. Dunque, dicevamo, mi raccomando, non dilapidate i vostri risparmi per vincere questo SUPER-MEGA-JACK-POT. Così lo vincerà qualcun altro. Magari proprio dal tabacchino sotto casa tua, perché chi lo sa, in fondo potrebbe avercela lui, la scheda che vince il SUPER-MEGA-JACK-POT.

A grande richiesta: cucina! Che ne pensi della trippa? Lo so, è repellente, ma oggi ho deciso che la trippa è sexy, e ho qui le foto di uno chef superstellato che fa una trippa fantastica, la farcisce, la frigge, la impana, poi butta via la trippa e serve tutto il resto e guarda che roba, guarda! magari è immangiabile, ma guarda che colori, che contrasto, che saturazione, col montaggio serrato sulla preparazione, c'è dell'arte qui, e mentre mi guardi manda giù pure la tua pasta scotta, con un bicchier di vino che fa bene, dicono i medici.

E adesso che c'è... ah, già, modelle. C'è rimasta la marchetta alle ultime due case di moda importanti, poi se Dio vuole la stagione Primaveraestate è finita. Siccome però notizie da abbinare agli outfit non ne abbiamo, pensavamo di risolvere anche stavolta il problema così: mostriamo solo le modelle più ossute e intervistiamo uno psicologo che dice che l'anoressia è un problema. Quindi beccati altri due minuti di modelle ossute... Ehi, ma hai visto che bel pellicciotto quella lì... ah, è foca? Però. Proprio bella, eh. Certo, ne dovresti perdere di chili per entrarci. Però col nuovo prodotto che scioglie le calorie, chissà.

E questo è tutto. Ciao dal tuo Telegiornale, la tua finestra del mondo.
Sì, lo so, sono schizzato. E mi piaccio così.
No, non è vero, mi faccio schifo.

FINE

*******

"Sono perplessa", confessò la pensosa Verola. "Anche questo mi pare un racconto in senso molto, molto, molto lato. Si direbbe che l'argomento che vi ho proposto non consenta un normale sviluppo narrativo. Oppure ho invitato una mezza dozzina di deficienti, anche questo è possibile. Prof. Esso, ce la fai a portarci qualcosa di passabile domani?"
"Non dovrebbe essere così difficile, mia signora".
"Ecco, appunto. A domattina allora, e mi raccomando, domattina puntuali a pilates".
Comments

L'assedio in pausa caffè

Permalink
(2011)
“Ehm, professore...”

Eh? Cosa? Come? Che c'è? Sono in pausa caffè.

“Professore, la pausa caffè era due ore fa”.

E allora? Mi serve concentrazione. Avevo anche messo fuori il cartellino do not disturb.

“Professore scusi, eh, ma ultimamente quando si concentra russa così forte che tremano i vetri di mezza redazione. E poi... sarebbe arrivata la classe”.

La che?

“Non si ricorda? La classe di quinta elementare, in gita d'istruzione, ci aveva detto che le mostrava il reparto”.

Aaah, già, la classe... che seccatura.

“Li faccio entrare?”

Un attimo, mi serve un caffè.

“Professore, ma è sicuro che tutti questi caffè le facciano bene?”

E tu che ne sai, ragazzino.

“Professore, ho cinquantadue anni io ormai”.

Appunto, ne devi mangiare di crostini ancora... Aspetta cinque minuti e poi falli entrare, ok?

***

“Allora bambini, se adesso fate silenzio, siamo arrivati nella parte della redazione oserei dire più... più nobile. Si può dire 'più nobile', professore?”

Ma sì, dica pure.

“È il reparto editoriali! Chi è che sa cosa sono gli editoriali?”
“Ioìo”.
“Noioìo”
“Allora dillo tu, Kevin”.
“Sono quelle colonnine scritte fitte fitte che stanno sui lati della prima pagina, è come se tenessero su la testata”.
“Miopapà dice che solo colonnine di chiacchiere che fanno discutere la gente”.
“Ah, ah, ah, Jonathan, non devi sempre credere a quello che dice papà... li scusi, professore... sono piccoli... credono un po' a tutto quello che gli si dice...”

Ma non ha tutti i torti, Jonathan.

“Ora, bambini, fate molta attenzione perché questo signore è il caporeparto, ed è uno degli editorialisti più letti d'Italia, e proprio lui ha accettato di mostrarci il suo luogo di lavoro, e di spiegarci come si fanno gli editoriali, pensate”.

Dunque, se prima di venire qui siete passati negli altri reparti, avrete notato che dappertutto c'era una cosa che qui manca, chi mi sa dire cos'è?

“Ioìoìo!”

Va bene, dimmelo tu.

“In tutti gli altri reparti c'erano tubi e cavi che portavano informazioni, e qui non ce n'è neanche uno”.

Esatto. Perché, come ha detto il vostro compagno prima, gli editoriali servono a far discutere la gente, e per far discutere non c'è bisogno di dare informazioni di prima mano, anzi, si rischia di distrarre il lettore. Questa è la prima cosa da sapere, quando si lavora al reparto editoriali: mai mettere un'informazione di prima mano, al massimo solo cose già rimasticate dagli altri reparti. Cosa che il lettore già sa, insomma.

“Ma se la gente le sa già perché le vuole rileggere?”

Perche gliele riscrivo io, che sono una persona importante, vedi come mi vesto? Ho anche la cravatta, qualche volta vado in tv - ma non troppo. Così, se tuo papà legge le cose che pensa già nel mio articolo, si convince che se le penso anch'io devono essere cose intelligenti.

“Mio papà legge solo Tuttosport”.

Funziona anche con Tuttosport. In questo reparto quindi noi lavoriamo con delle idee semplici semplici, che possono venire in mente ai vostri papà e alle vostre mamme, vedete? Stanno in quel cestone, il cestone dei Luoghi Comuni, noi li chiamiamo così. Allora tutte le volte che serve un editoriale, io prendo uno o due luoghi comuni (ma è meglio prenderne uno solo per volta) e li assemblo su una scocca. Per esempio, adesso ne pesco uno...

“Professore, ci fa provare?”
“Ioìoìo!”

Guardate che è un lavoro difficile, di responsabilità... oh, va bene. Tu, con le treccine, afferra un Luogo Comune.

“Ma quale devo prendere?”

Il primo che ti viene in mano.

“Questo?”

Leggi cosa c'è scritto.

“I-metalmeccanici-devono-rimboccarsi-le-maniche-perché-c'è-la globalizzz...”

...la globalizzazione.

“Cosa vuol dire globalizzazione?”

Che nel mondo, che è un globo, c'è sempre più gente disposta a fare il lavoro di tuo papà per meno euro all'ora, e quindi tuo papà deve sforzarsi di lavorare di più, meno pause caffè e meno gabinetto, eccetera.

“Ma mio papà è in cassa integrazione a zero ore”.

Parlavo in generale. Dunque, ora che abbiamo preso questo bel Luogo Comune, lo montiamo su una scocca. Le scocche sono da questa parte... sono intelaiature, come vedete”.

“Quanta polvere! Eccì!”

Sì, sono modelli molto antichi, in effetti sono più o meno le stesse intelaiature che si usano dall'invenzione del giornalismo, nel Seicento... ma alcuni erano in giro già ai tempi della retorica antica, una materia che voi a scuola non studiate.

“Studiamo Harry Potter”.

Meglio così.

“Ma non ho capito, scusa professore, a cosa servono queste sciocche?”

Scocche. Vedi, cara bambina, a tirar fuori un concetto dal cestone dei luoghi comuni sono buoni tutti, ma inserire un luogo comune in un'intelaiatura di processi logici è una cosa molto più complicata. La scocca è la base di tutto, perché rende i luoghi comuni resistenti al senso critico. E dev'essere aerodinamica, nel senso che deve offrire meno attrito possibile agli argomenti contrari. Deve dare l'immagine della coerenza, della logica, della rapidità, così che quando da lontano vedono passare il mio editoriale con tutti i luoghi comuni al posto giusto sulla scocca, tuo papà e tua mamma esclamano: “è tutto chiaro! Non c'è nulla da aggiungere, ha già detto tutto il Professore!”

“Mio papà guarda solo la tv”.
“Mia mamma legge solo internet”.

Parlavo di papà e di mamme in generale. Chi vuole montare il Luogo Comune su una scocca?

“Ioìo!”

Va bene. Stai attento, eh, che c'è gente che ci mette anche una settimana a...

“Fatto!”

Però, sei stato rapido.

“Da grande voglio fare l'editorialista!”

Allora devi imparare a lavorare più piano. Comunque l'editoriale non è ancora finito, adesso si procede alla zincatura, ovvero si immerge la scocca in una vasca di Lessico Corretto. Il lessico è molto importante: non deve essere troppo banale o sciatto.

“E perché?”

Perché deve essere chiaro che è un Professore che parla, uno che ha studiato a lungo. Altrimenti rischia di non esserci nessuna differenza tra questo editoriale e le chiacchiere dei vostri papà al bar.

“Mio papà non va al bar, è musulmano”.

...Quindi, per esempio, al posto di “scegliere”, si usa la parola “optare”.

“Cosa vuol dire optare?”

Scegliere.

“Ho capito, si prendono tutte le parole facili e si trasformano in difficili”.

Eh, no, attenzione, perché se l'editoriale diventa troppo difficile la gente poi non lo legge, e comincia a pensare che il Professore è uno snob. Invece il messaggio che deve passare è che il Professore ha studiato tanto ma si sta sforzando di farsi capire alla gente umile, che sarebbero poi i vostri genitori.

“I miei genitori fanno i precari all'università”.

Mollali appena puoi. Quindi, ricapitolando: non esageriamo con la zincatura. Due o tre minuti sono più che sufficienti per rivestire la scocca di un lessico forbito ma non troppo. Ecco, abbiamo finito.

“E adesso che si fa?”

Si manda l'editoriale al reparto correttori di bozza, dove elimineranno qualche errore ortografico, non troppi.

“Ma non passa dal reparto facts-checking, come tutti gli altri pezzi del giornale?”

Hai visto troppi film americani, quel reparto da noi non esiste – e poi se anche esistesse, non sarebbe il nostro caso, perché questo editoriale, come dicevamo prima, non contiene propriamente nessun “fact”, nessuna informazione di prima mano. Quindi il mio lavoro è finito. Domande?

“Professore, mio papà lavora in una fabbrica simile, però produce le macchine, anche dieci al giorno”.

Non male, tesoro, anche se dovrà abituarsi a produrne un po' di più. Ma qual è la domanda?

“Ecco, io volevo chiedere, tu quanti editoriali produci in un giorno?”

In un giorno? Per carità, al massimo ne faccio un paio alla settimana. Sono più che sufficienti.

“E tutto il resto del tempo cosa fai?”

Beh, mi concentro per scriverli meglio. E poi ho anche altri lavori, per esempio faccio lezioni all'università, utilizzando più o meno le stesse scocche che si adoperano qui, ma con una zincatura più pesante. Poi ogni tanto prendo tutti i miei editoriali, li monto in una scocca più pesante con copertina di cartone e rilegatura in brossura, e li rivendo di nuovo ai vostri genitori in libreria.

“Mio papà in libreria compra solo i divudì”.

E a volte mi invitano in tv a dire due parole sui miei libri. Insomma, sono molto impegnato.

“Ma professore, come si fa a diventare editorialisti?”

Eh, figliolo, bisogna studiare tanto tanto. E poi ancora tanto tanto. Fare tanti sacrifici. E poi, un giorno, chiedere a tuo papà se ti fa scrivere nel suo giornale, o in quello dell'amico del cognato, o se suo zio rettore ti assume all'università, cose così.

“Mio zio di mestiere guida il muletto dietro l'esselunga, mi ha promesso che me lo fa provare”.

Direi che tua strada è segnata. Altre domande?

“Professore, ma lei non ha paura della globa... come si chiama”.

Della globalizzazione? Tesoro, perché dovrei averne paura io?

“Ma lo ha detto prima, c'è sempre gente al mondo che è disposta a lavorare per meno euro all'ora. Questo non vale anche per lei?”

Ma no... vedi, la maggior parte di queste persone stanno in Cina e in India, e se si sforzano possono anche imparare a guidare il muletto dello zio del tuo compagno, ma prima che imparino a scrivere editoriali in italiano... eh, ci vorrà ancora molto tempo. Quindi il mio mestiere è al sicuro, vedete, perché è ancora un mestiere antico, come li chiamavano nel medioevo... un'Arte. Ci vogliono anni e anni di esperienza per riuscire a scrivere quello che...

“Professore, mio papà a volte ti legge...”

Oh, finalmente.

“...e dice che quello che scrivi tu lo potrebbe scrivere anche un bambino delle elementari, e in effetti adesso che ci hai mostrato come si fa, penso che mio papà ha ragione”.

Si dice “abbia ragione”. Vedi? Credi che sia facile, ma poi sbagli i congiuntivi.

“Professore, abbia pazienza, i congiuntivi esprimono: dubbio, incertezza, sospetto, mentre io sono assolutamente sicuro che mio papà HA ragione”.
“Io se scrivo temi con idee così banali la maestra mi dà al massimo sette meno meno”.
“Mia mamma ha smesso di leggerti da tre anni, dice che su internet ci sono persone che scrivono gratis cose molto più interessanti”.
“Mio papà quanto ti vede in tv la spegne, dice che piuttosto di starti ad ascoltare va al bar, dove almeno la gente che dice le tue banalità si può insultare dal vivo”.
“Adesso, professore, onestamente: quanto guadagna netto in quei cinque minuti in cui spiega con belle parole che i nostri genitori non devono più fare la pausa caffè?”

Fermi, state fermi... se mi venite tutti addosso non respiro...

“Professore, secondo me tu sei un parassita che non servi a nulla, nessun indiano o cinese ti verrà a sostituire perché fondamentalmente il tuo mestiere ormai è inutile”.
“Sei convinto di vivere in una torre d'avorio in mezzo alla pianura dell'ignoranza, quando ti basterebbe dare un'occhiata alla finestra per accorgerti che tutto intorno ormai è pieno di grattacieli”.

Maledette canagliette, dov'è la vostra maestrina?

“Sono qui dietro”.

Richiama queste piccole pesti, mi vengono addosso!

“Ehiehi, che maniere. Mi dia del lei, intanto, sono una professoressa anch'io. Ho appena conseguito un dottorato di ricerca in Letteratura per l'Infanzia, se ha dato un'occhiata al mio curriculum avrà notato che negli ultimi tre anni ho scritto più articoli scientifici di lei”.

Ma io mica leggo i curriculum...

“Già, che bisogno c'è. Dalla sua torretta siamo tutte maestrine. Allora bimbi, cosa vogliamo fare di questo babbano inutile?”
“Impicchiamolo!”
“Alla sua cravatta!”
“Dai!”
“Buttiamolo nel cesto dei Luoghi Comuni, in fondo è quello che è”.
“Anzi, probabilmente è lì che lo hanno trovato”.
“Lo hanno assemblato su una di queste scocche”.
“Poi a un certo punto si è convinto di essere un umano, ma è stato tanti anni fa, quando la gente ancora lo leggeva!”
“Meravigliosa intuizione, Kevin. Va bene, smontiamolo e vediamo se riusciamo ad assemblarlo in un modo più originale”.

Indietro! Indietro! Canaglia! Canaglia!

***

“Professore, dice a me?”

Eh? Oddio, era tutto un incubo. Devo essermi appisolato e... ma cosa sono queste urla di là? Ci sono dei bambini?

“Bambini? Ma no, è la vertenza. Sa che dobbiamo mandare a casa un'altra dozzina di redattori”.

Ancora?

“Che ci vuol fare, professore, continuiamo a perdere copie... Piuttosto, è pronto l'editoriale?”

No, mi dispiace, mi devo essere assopito e... Qual era l'argomento, scusami?

“Riforma Gelmini. Deve scrivere che gli studenti sono reazionari, non accettano le novità, difendono lo status quo”.

Ma l'ho già scritto la settimana scorsa.

“Va bene, allora prende il pezzo della settimana scorsa, lo smonta, lo riassembla in un ordine diverso, cambia un po' di sinonimi... se è stanco le mando uno stagista, ce n'è uno giovane che è molto bravo”.

No, no, faccio da solo.

“Guardi che non è un problema, tanto lo stagista è qua. E non lo paghiamo mica a prestazione. Anzi, non lo paghiamo proprio, ahah”.

Quanti anni ha?

“Un po' meno di trenta, direi... ventotto, ventisei...”

Alla sua età io ero già in facoltà... prendevo l'assegnino...

“Cosa ci vuol fare, professore, è una generazione di... di bamboccioni, no? Non l'ha detta lei questa cosa?”

No. Non ero io. L'ha detta uno che adesso è morto.

“Ah, mi scusi. Devo averla vista nel cestone dei Luoghi Comuni, e ho pensato che fosse roba sua”.

Eh? Cos'hai detto?




FINE
*******

"Un dialogo a più voci, però!", disse allora l'intrigata Verola. "Aureliano, il tuo coraggio non si fa scrupolo di superare i limiti della prudenza. Che ne pensi, Taddei?"
"Mia signora, perché lo chiede proprio a me?"
"Forse per le cinque volte che hai sbuffato durante la recitazione? Il racconto evidentemente non ha incontrato i tuoi gusti".
"Mia signora, non è a me che qui spetta il ruolo di giudice: e tuttavia se possibile vorrei fosse messo agli atti che i dialoghetti didascalici del mio avversario mi urtano; che il suo populismo frustrato, che non a caso parla per mezzo di bambini di scuola elementare imbeccati a ideologia, offende la mia intelligenza; e il tono da agitprop con cui ci elargisce l'ennesimo capitolo del suo martirologio mi ributta, sì, mi ributta profondamente".
"Disgustare i lettori come te", rispose Aureliano, "potrebbe anche essere uno dei miei obiettivi".
"E in ciò almeno ti sbagli, Aureliano", replicò Verola, "giacché l'unico obiettivo, qui, è intrattenermi e fare prova della vostra abilità narrativa. Come ci dimostrerà Taddei domani, con un nuovo racconto interessante e originale, vero Taddei? Ma ora a nanna, ché domani mattina c'è il corso di equitazione"
Comments (1)

Dio mi ama

Permalink
(1998)
Mi chiama Dio, mi chiede se ho impegni in serata.

"In effetti, ecco, è curioso, mi sono appena messo d'accordo con Simona, si pensava di andare al cinema… però potresti venire con noi, che ne dici? No, guarda, nessun imbarazzo. Sul serio… Beh, come vuoi".

Mi chiedono in tanti perché credo nel mio Dio. Lo so, è una di quelle classiche divinità di una volta, un po' noiose, sì, è tutto vero. Ma onestamente non mi posso lamentare. È un Dio che sa stare al suo posto e capisce immediatamente quando non è il caso di insistere. Al cinema con Simona volevo andarci da solo, è ovvio.

"Possiamo vederci comunque una di queste sere, se ti va…”, propongo, “venerdì per esempio hai degli impegni, sei da qualche parte?" Questa è una domanda retorica, Lui è onnipresente, e in particolare per me c'è sempre. È da tanti anni che mi chiama, almeno una volta alla settimana: certamente venerdì andrà benissimo.

Per lui. Quanto a me, ho un bel da ripetermi che non è una storia importante, anzi non è nemmeno una storia, ci esco solo una sera ogni tanto e basta. Stimo molto il mio Dio, potrei quasi dire di esser fiero di lui, ma vorrei tanto che non ci provasse tutte le volte con me, che potesse finalmente considerarmi per quello che sono: un amico, soltanto un amico… ma non c'è niente da fare. Dicono gli adesivi sui parabrezza: Dio ti ama. Accettalo. Ma io so già come andrà a finire: gliela darò buca anche questo venerdì, sicuro che se ne starà per una buona ora e mezza ad aspettarmi al bar dell'angolo. Per poi richiamarmi domenica, puntuale. Dio mi ama! e non sa proprio cosa farsene, della mia semplice amicizia.

Guardo troppa televisione.
Stasera c’era questo programma di spiritualità, e intervistavano un sacco di gente: tutti raccontavano di aver incontrato il loro Dio in un momento di massima difficoltà. La ragazza grassottella parlava di una situazione famigliare disastrosa (percosse, divorzio, ricatti sull'affidamento, alimenti in ritardo); il tizio con la barba era rimasto maciullato durante una spedizione di trekking in alta quota; ma l'immagine di una vita intera in carrozzina non aveva fatto in tempo a profilarglisi che tac! era miracolosamente guarito, e potete star certi che il suo Dio ci aveva messo lo zampino. E il consulente finanziario che si era giocato tutti i risparmi dei suoi clienti su una roulette a Montecarlo, perdendoli: sulla strada del ritorno aveva visto Dio, si era pentito e fatto frate; anche i clienti lo avevano perdonato, figurarsi: Dio ci aveva messo una buona parola.

Io su queste cose non dovrei riderci sopra. Peggio per me se guardo troppa televisione, se sgonfio la mia noia per una vita facile facendomi raccontare i guai che ho schivato, le disgrazie cadute su qualcun altro.

In fondo quello che provo veramente è invidia. Invidia per il modo in cui tante persone – tutti, si direbbe – si incontrano con Dio. Sempre sul luogo del disastro. Sempre quando ormai non ti aspetti più aiuto da nessuno. Quando somatizzi, quanto ti soffochi masticando di rabbia un cuscino in un letto sporco e troppo grande, quando vedi pezzi di te tutt'attorno e non ti rispondono, quando hai fame, quando hai sete, quando hai sonno.

E mi chiedo: solo a me capita che Dio si faccia presente quell'ora al mese che sto bene, pulito, ben mangiato e ben dormito, senza sensi di colpa e con buone possibilità di concludere con Simona in serata? Solo a me?

*******

"Dunque è tutto qui?", domandò l'annoiata Verola. "Faccio persino fatica a considerarlo un racconto".
"Mia signora", rispose Don Tinto, "a mia parziale discolpa, ho avuto poco tempo per elaborare una storia su questo tema".
"Hai avuto tutto il tempo necessario. Va bene, basta così. Domani sentiremo Aureliano, che più volte ha scosso la testa mentre Don Tinto raccontava i fatti suoi. Confido che saprà fare di meglio. E adesso a letto, che domattina alle sette siamo tutti attesi in infermeria per un controllo - così saremo ancora più sicuri di non aver portato con noi quassù quel batterio della cacarella che a quanto pare tormenta gli abitanti della valle... 
Comments

Prime notizie dell'epidemia

Permalink
"Cosa stavo dicendo?", proseguì Verola, "ah, sì: non mi resta che procedere all'eliminazione di uno di voi. E non intendo sprecarci molto tempo. Aureliano e Arci facciano un passo avanti".
I due obbedirono, e come per incanto nell'aere si diffuse una musica greve: una nota sola, protratta all'infinito, come a rendere ancor più faticosa l'attesa.


"Aureliano", cominciò. "Il tuo racconto non era poi così male. Benché palesemente off topic, come si dice adesso, gli riconosco qualche qualità espressiva - anche se chi ha letto il racconto di Keyes capisce dopo due minuti dove vuoi andare a parare".
"Ebbene sì, mia signora", proruppe l'improvvido Aureliano, "confesso senza vergogna di non aver alcuno scrupolo a recuperare un'idea altrui, quando è funzionale al messaggio che ho intenzione di veicolare. Non ho nessun culto romantico per l'originalità, e combatto fieramente la tirannia del copyright, feticcio borghese grazie al quale i nipoti inetti dei grandi scrittori pretenderebbero di essere coperti d'oro..."
"Ma Keyes è ancora vivo, credo; e in generale non mi piace essere interrotta", replicò la gelida Verola.
"Mi scusi, mia signora".
"Arci: il tuo raccontino, quando l'ho riletto a video, non mi è dispiaciuto. Eri fuori tema anche tu, ma mi piace questo modo di prendere ispirazione dai brandelli di conversazione insensata che la realtà ci recapita in casa".
"Grazie, mia signora".
"E adesso devo dirvi chi dei due lascerà la mia Residenza. Mi prendo un po' di spazio bianco, fingendo un'esitazione che non ho mai sperimentato in vita mia":






















































(Sempre quella nota insistita in sottofondo, insopportabile).










































































"Arci", proseguì, "devi fare i bagagli".
"Mia signora", disse allora il misterioso Arci, mentre Aureliano prendeva fiato e si tergeva il sudore, "non intendo contestare il suo giudizio, nel quale riconosco una buona dose di saggezza: un racconto che funzioni solo a video parte sfavorito in qualsiasi certame. Accetto serenamente la mia eliminazione, ma domando ugualmente di poter restare ancora qui presso di lei, indossando la livrea della servitù, se necessario".
"Di servi ne ho fin troppi", rispose Aureliana, "e non capisco il motivo per cui vorresti restare qui sconfitto a osservare gli altri gareggiare e trionfare. Ti facevo più orgoglioso".
"Mia signora, l'orgoglio c'entra poco. Quello che mi spinge a prostrarmi ai suoi piedi, radendo al suolo ogni mia residua dignità, è la preoccupazione per quell'epidemia di cui tutti parlano".
"Epidemia?", replicò l'incuriosita ospite. "E chi ne parla?"
"Tutto il personale di servizio: custodi, cuochi, sguatteri, non fanno altro che raccontare di questo morbo che dilaga a valle e miete vittime tra i loro parenti. Si tratta probabilmente di quel malessere intestinale di cui si sentiva molto parlare la settimana scorsa".
"E vuoi restare da me come servitore per evitare una diarrea?"
"Mia signora, da come i suoi domestici ne parlano, si direbbe che il batterio sia mutato al punto da divenire letale, e che non si sia trovato ancora un antibiotico adatto. Ragion per cui..."
"Caro Arci, la cosa sta diventando imbarazzante. Sei già mio ospite da una settimana; in cambio ti ho chiesto solo una storia, e non era un granché; ora vorresti fare della mia residenza un sanatorio, un baluardo contro la cacarella, ebbene no, mi spiace: nulla di personale, ma non posso creare un precedente".
"Capisco, mia signora".
"I miei uomini ti accompagneranno all'uscita".
"Addio, mia signora".
"Non saluti i tuoi avversari?"
"Sì, addio anche ai miei avversari, e vinca il migliore".
"Molto bene. Domani sveglia alle sei, e Don Tinto ci dirà la messa".
"Veramente io non potrei".
"Uff, allora la dirà il mio cappellano. In compenso domani sera Don Tinto ci intratterrà col suo secondo racconto".
"Volentieri, mia signora, ma su quale argomento?"
"Ecco. In onore del vostro avversario sconfitto, vorrei che le vostre storie, come la sua, ruotassero attorno ai mezzi di comunicazione: internet, televisione, telefono..."
"Vanno bene anche i giornali?"
"Vanno bene anche le tavolette azteche. A domani".


******* FINE DEL PRIMO TURNO *******
Comments (3)

Il futuro di chi ha memoria

Permalink
(2008-11)
La Storia, ho studiato, si ripete in farsa. Anche se stanotte non riesco a rammentare il perché: e non saprei a chi chiedere qui. E dire che dalla quantità di triangolini rossi ricamati dovremmo essere tutti mezzi intellettuali. In realtà passiamo il tempo a rubarci le patate. 

La Storia si ripete in farsa, ma io non ci trovo molto da ridere. Può darsi che qualcun altro da fuori stia ridendo di me, di noi, ecco, questo avrebbe un senso. La fuori, nell'urlo del vento, Qualcuno ride. Io sto qui abbracciato a un deportato rumeno che trema più di me, e penso a Enea, alla prima volta che l'ho incontrato.

Non insegnavo nella sua classe, quindi ha del miracoloso che si ricordi di me. Ero lì di passaggio, sostituivo un collega con le piattole. No. Mi confondo. Le piattole ce le ha il mio collega di adesso, quello che trema, ed è pur sempre un segno di vitalità, di solito a un certo punto ti abbandonano anche loro. Il mio collega di allora era una collega, in realtà, una filologa molto brava che si fece venire un esaurimento nervoso e così la classe restò abbandonata a sé stessa per più di una settimana prima che mi mandassero a tamponare. Quando arrivai mi scambiarono per l'ennesimo supplente, avevano già predisposto il lettore dvd. I dvd!

Che tecnologia insulsa. I lettori si rompevano a guardarli. I dischi si segnavano a sfiorarli. Specie quelli educativi. Invece le minchiate che portavano a scuola i ragazzi, quelle funzionavano sempre.

“Sentiamo, cosa vorreste guardare”.
“Alien vs Predator 2”.
“Non se ne parla”.
“Ma abbiamo visto il primo, vogliamo sapere come va a finire”.
“Sentite, ce l'ho io un buon film”. (Probabilmente in quegli anni me lo portavo sempre addosso). Ed è anche nel programma di Storia di quest'anno, così uniamo all'utile il d...
“È in bianco e nero, vero?”
“Sì, ma vedrete che è appassionante, e soprattutto è un film che parla di cose reali, cose che anche se vi appariranno mostruose, ben più mostruose di un Alien o di un Predator, sono successe realmente, nel nostro mondo, ai nostri bisnonni”.
“I bisnonni?”
“Facciamo trisnonni, ormai, e sapete cosa significa? Quando guardate Alien, per quanto possa spaventarvi, siete sempre sicuri dall'altra parte dello schermo. Ma l'orrore di questo film è ancora tra noi, da qualche parte, che incuba...”
“Incuba?”
“Aspetta soltanto il momento adatto per schiudersi e crescere, prolificare, riprendere il controllo... non vale la pena dargli un'occhiata, studiarlo, capire come abbiamo fatto a sconfiggerlo?”
“Cazzo, sì!”
“Ehi ehi ehi, tu... come ti chiami?”
“Galavotti”.
“Di nome?”
“Enea”.
“Che bel nome. Enea, niente parolacce qui dentro, d'accordo?”
“Prof, ma lo guardiamo questo film di mostri veri, o no?”
“Certo, certo, guarda, comincia adesso, attento alla candela”.

Un idiota ha aperto la porta.
Una folata di vento gelido mi spazza i ricordi dalla testa, sembra voglia gonfiare la baracca e portarsela via. Qualcuno si sta alzando, cerca di mettersi sull'attenti. Quindi l'idiota che ha aperto la porta è il comandante.
“Il professore è ancora qui?”
Mi libero dalla stretta del mio collega, che forze per alzarsi non ne ha.
“Sono qui, comandante Galavotti”.
“Facciamo due passi”.

Appena fuori dalla baracca mi getta una giacca sulle spalle. Ma non sto tremando dal freddo. I miei colleghi penseranno che sono una spia. O forse è troppo tardi per preoccuparsene? 

“Professore, devo dirle, in questi anni ho pensato molto a lei”.
“Comandante, io però...”
“Vede, ne ho discusso anche con i miei camerati, e siamo arrivati alla medesima conclusione: gli anni delle medie sono stati i più formativi”.
“Però. Chi se l'aspettava”.
“Sì, perché in quegli anni hai la mente e il cuore... come dire... teneri. Si plasmano su quello che trovano, capisce. E io ho avuto una grande fortuna a incontrare persone come lei”.
“Davvero?”
“Ho ancora vivide nella memoria le immagini che ci proiettava, tutti quei film... a volte penso che tutto quello di buono che ho fatto nella vita lo devo a quei film. Senta (mi prende sottobraccio, la sua uniforme di ufficiale si strofina sul mio pigiama liso). Siamo venuti a sgomberare il campo”.
“Bene. Cioè... È una notizia buona, no?”
“Per voi no. Ora dobbiamo dividervi in gruppi di sei e poi mettervi in fila. Lei cerchi di stare in fondo alla fila. Sempre in fondo”.
“Ma...”
“Mi stia a sentire. Vi portano nel piazzale, e sparano al torso del primo della fila. La pallottola trapassa e ne ammazza anche altri quattro, ma a volte l'ultimo si salva, capisce? Se riesce a fare il morto fino a sera può scappare”.
“Ma farà freddo!”
“I cadaveri scaldano”.
“Enea, perdonami, posso farti una domanda seria?”
“Dica pure, prof”.
“Perché tutto questo orrore, perché?”
“Cosa vuole che le dica, stiamo esaurendo le munizioni, dobbiamo fare economia. O preferirebbe che vi strangolassimo? Converrà che questo è un metodo più pietoso”.
“Ma...”
“Credo che lo abbiamo preso da un film, forse quello in bianco e nero lungo lungo, ha presente? Che gran film! Credo proprio che ce lo abbia fatto vedere lei”.
“Sì, però...”
“Aveva ragione, sa? Anche dai film si può imparare. E noi abbiamo imparato tanto. Ora, se non le spiace, devo procedere allo sgombero. In bocca al lupo, professore”.
“In bocca al lupo, Enea, e grazie”.
“Ma grazie a lei. E mi raccomando. Sempre in fondo alla fila. Si ricordi”.

*******

"Oh, finalmente un genocidio", sospirò la paziente Verola. "Il modo migliore per festeggiare la fine del primo turno. Non resta che procedere all'eliminazione di uno di voi..."
Comments (1)

Il contagio

Permalink
(2007)

>Avviso
>Sono capitano della polizia Prisco Mazzi. I rusultati dell'ultima verifica hanno rivelato che dal Suo computer sono stati visitati i siti che trasgrediscono i diritti d'autore e sono stati scaricati i file pirati nel formato mp3. Quindi Lei e un complice del reato e puo avere la responsabilita amministrativa.
>Il suo numero nel nostro registro e 00098361420.
>Non si puo essere errore, abbiamo confrontato l'ora dell'entrata al sito nel registro del server e l'ora del Suo collegamento al Suo provider. Come e l'unico fatto, puo sottrarsi alla punizione se si impegna a non visitare piu i siti illegali e non trasgredire i diritti d'autore.
>Per questo per favore conservate l'archivio (avviso_98361420.zip parola d'accesso: 1605) allegato alla lettera al Suo computer, desarchiviatelo in una cartella e leggete l'accordo che si trova dentro.
>La vostra parola d'accesso personale per l'archivio: 1605
>E obbligatorio.
>Grazie per la collaborazione

*************************************************************

Re:Avviso

Da: Tenente dei Carabinieri a riposo Nicudi Alcide
Egregio sedicente “capitano della polizia” Mazzi Prisco,
in relazione alla sua missiva elettronica del 16 maggio corrente anno, ore 10:27 antimeridiane, in cui lei mi notifica la mia “responsabilita [sic] amministrativa” per la complicità con un non meglio precisato trasgressore del reato di violazione dei diritti d’autore,

IO SOTTOSCRITTO
Tenente dei Carabinieri a riposo Nicudi Alcide, nato a Licata l’11/6/1949 e risiedente a Mondovì (CN), nel pieno possesso delle mie facoltà mentali nonché intellettive e psichiche

CERTIFICO:
di essere nato a Licata l’11/6/1949 e di risiedere a Mondovì (CN), nel pieno possesso delle mie facoltà mentali nonché intellettive e psichiche;

NOTIFICO
Punto a: Di non avere mai collaborato con chicchessia trasgredente i sopradetti diritti, che in quanto sanciti dal Codice Civile sono nutriti nei miei confronti del deferente rispetto con il quale ho sempre onorato la legalità e tenuto fede al giuramento della mia Arma ecc. ecc.

Punto due: Di non essermi mai, a nessuna ora del dì e della notte, recato in “siti illegali”; di ignorare altresì l’ubicazione di codesti siti e di non essere giunto a formulare con certezza una supposizione sul perché i sopradetti siti dovrebbero essere raggiungibili mediante il mio Computer Portabile, regalo del mio nipote maggiore;

DIFFIDO
La sua persona, in quanto sedicente “capitano di polizia”, dall’imputare nei miei confronti responsabilità amministrative o penali, pena l’eventualità non inammissibile che io la denunci presso autorità competenti;

LE COMUNICO, ALTRESì ED INOLTRE
Di avere inviato per conoscenza alla Polizia Postale di Cuneo la sua missiva elettronica in allegato onde contribuire al fare luce su questo caso.

Nei Secoli Fedele, suo
TENENTE DEI CARABINIERI A RIPOSO NICUDI ALCIDE

*************************************************************

Fwd:Re:Avviso

Da: Cicci’82, polizia postale
A: Webmaster p.postale

Ciao, Nn so se t e gia arrivata questa ;-)))) Hai letto il tenente dei CC? FA SGANASCIAREEEE!
O provato a clikkare sul file allegato, ma nn e successo niente. Forse serve 1 programma che nn cho, boh :-((( Prova a clikkare tu, vediamo.

PS: T scrivo dal PC del mio collega, xké il mio nn funziona più. L. MI MANDI UN TECNICOOOOO?


*************************************************************

Re:Re:Re:Avviso
Da: Giacomo Panzetti, Polizia Postale Cuneo

Gentile Tenente dei CC a riposo Nicudi Alcide,
mi trovo costretto a inviarLe questa missiva in modo tradizionale, in seguito a un misterioso incidente che ha inficiato irrimediabilmente i server della Polizia Postale.
A causa del sopradetto incidente, non siamo stati in grado di determinare l’origine della misteriosa denuncia a lei recapitata.
Certi di poter contare sempre sulla sua preziosa collaborazione, le inviamo i nostri più cordiali sentimenti, suo
Ecc. ecc.


*************************************************************

Re:Re:Re:Re:Avviso
Gentile Giacomo Panzetti, Polizia Postale Cuneo
da: Tenente dei Carabinieri a riposo Nicudi Alcide

Cogliendo l’occasione per ringraziarla della sua pronta missiva, testimonianza quanto mai rara e preziosa degli ampi margini di collaborazione possibili tra membri di differenti forze dell’ordine, anche a riposo, purché tesi al bene comune e nel rispetto dell’ordine e della legalità,

APPROFITTO

della sua gentile missiva per porLe un altro quesito: proprio oggi, recandomi in posta, una signorina un po’ svogliata – probabilmente lavoratrice a cottimo o interinale – ha rifiutato di versarmi la somma richiesta, adducendo la risibile scusa che il mio conto era stato svuotato ed era chiuso: dettaglio, questo, assolutamente inverosimile. Mi perdoni la schiettezza del mio sfogo, da uomo d’ordine a uomo d’ordine, ma in queste ore confesso di struggermi non poco dinanzi alla domanda: Dove sono i miei soldi? Certo in una sua competente e pronta e risposta, la saluto, suo [Ecc. Ecc.]


*************************************************************

>Re:Re:Re: Avviso
>Sono capitano della polizia Prisco Mazzi. Mi scuso per il disturbo della mail dell’altra volta, giunta per sbaglio al suo indirizzo a causa di un virus nel nostro server. Una migliore ispezione a chiarito che i siti che trasgrediscono il diritto d’autore non sono stati visitati dal suo computer e che quindi lei non e punibile di nessun reato.
>Per desinserire il suo nome dal nostro, conservate l'archivio (avviso_98666420.zip parola d'accesso: 1605) allegato alla lettera al Suo computer, desarchiviatelo in una cartella e leggete l'accordo che si trova dentro.
>Ricordate inotlre di riempire il form con i vostri dati sensibili: nome, cognome, indirizzo e-mail, passwors di conto bancario principale. E obbligatorio.
>Grazie per la collaborazione


*******

"Cos'è, uno scherzo?", chiese dopo qualche minuto la spazientita Verola. "Non si capiva nulla".
"Mia signora", rispose Arci, "il racconto, ispirato a una mail che ricevetti realmente, funziona certo meglio se letto a video, e tuttavia..."
"E i morti? La sofferenza? Non c'è nemmeno un ferito!"
"Mia signora, lei ci disse, [control v]: battaglie, guerre ed epidemie saranno parimenti bene accette. 
Così ho pensato di descrivere un'epidemia informatica, nel suo dipanarsi e prolificare attraverso gli errori degli uomini, che..."
"Sei in nomination, Arci, sappilo. Quanto al prof. Esso, a questo punto da lui mi aspetto almeno un'ecatombe, che mi ripaghi di tutto il sangue che voi checche in queste cinque notti avete risparmiato. E adesso ritiratevi. Domattina comincia il corso intensivo di amore tantrico. Io sotto le cinque ore non scendo, fatevene una ragione".
Comments (2)

Sai-Pio sale in cielo

Permalink
(2011)
Il mondo sarebbe girato diversamente se al piccolo Sai-Pio, nato in un piccolo villaggio delle province meridionali, i dottori non avessero diagnosticato un handicap inguaribile e mortale. La madre, che al termine di una gravidanza dolorosa e angosciante in lui aveva finalmente avuto l'unico figlio, lungamente desiderato, invece di arrendersi al responso dei medici, si recò con Sai-pio in pellegrinaggio al Sacro Monte, o al Sacro Fiume, le fonti discordano su tutto tranne che su un punto: che dalle acque (o dal digiuno nel deserto, o boh) Sai-Pio riemerse totalmente guarito, consacrato a Dio e nemico di ogni dottore e della scienza medica in generale. E siccome la gente veniva da lontano a vedere il miracolato – disposta anche a pagare qualche soldino che la madre, previdente, accantonava per il college – quella che negli anni dell'infanzia era una semplice avversione contro i medici che lo avevano voluto morto non tardò a diventare una fede, un'ideologia, una religione: non aveva ancora compiuto trent'anni e Sai-Pio già scriveva fulminanti editoriali contro le miserie della medicalizzazione, e denunciava la speculazione dei giganti farmaceutici, e aizzava i suoi seguaci contro i consultori, promettendo l'inferno a chi abortiva, un purgatorio doloroso a chi pretendeva di partorire con l'epidurale e così via, insomma, avete capito il tipo.

Un giorno che Sai-Pio era diretto a Damasco per un comizio contro la sperimentazione sulle cellule staminali, accadde un incidente. Stava procedendo a velocità di crociera quando una luce improvvisa lo accecò. Fece appena in tempo ad accostare sulla corsia di emergenza, e non vi dico quanti numeri chiamò (il servizio assistenza della tim, i carabinieri, l'ora esatta) prima di azzeccare al buio la combinazione esatta dei tasti che lo mise in contatto con il Pronto Soccorso più vicino. Ricoverato d'urgenza, Sai-Pio fu visitato dai più importanti luminari del Paese, il cui responso anche stavolta fu unanime: il nemico dei medici aveva pochi mesi di vita davanti a sé.
“Amen, colleghi”, disse uno di loro, tra i più giovani. “Un bigotto in meno. A proposito, dov'è il suo Dio adesso?”
“Taci, imbecille”, gli rispose un anziano. “Non capisci in che guaio ci mette, il bigotto? Se non lo guariamo, saremo accusati di volerlo uccidere”
“Il che non sarebbe poi così sbagliato”, interloquì un terzo, “almeno nel mio caso... Quando ottenne la chiusura del mio laboratorio di ricerche, io ammetto di averlo voluto morto”.
“Ma non era ancora un tuo paziente. Comunque, non è solo un problema etico. La nostra diagnosi sarà presa per una condanna a morte, per un assassinio politico. Non possiamo permettercelo”.
“Sì, però quello morirà lo stesso”.
“Colleghi, sapete cosa ci vorrebbe qui? Un miracolo”.
“Peccato che non esistano. Anche se...”
“Anche se?”
“Ci sarebbe il dottor Asanta”.
“Quel matto?”
“Cosa abbiamo da perdere?”

Fu così che Sai-Pio fu condotto nella clinica sulla collina dove operava il dottor Asanta, figura molto controversa a causa della scarsa eticità dei suoi esperimenti.
“Ma guarda chi si vede, l'ammazza-abortisti”.
“Se ti riferisci alle recenti stragi nei consultori, le inchieste hanno totalmente escluso che io sia il mandante di quei fanatici che...”
“...che avevano tutti il tuo libro sul comodino. Vabbe', venendo al sodo, hai una forma abbastanza rara di cancro all'ipotalamo”.
“Sarà incurabile, immagino”.
“Per i comuni mortali sì, ma tu hai Dio dalla tua parte, o sbaglio?”
“Dio a quest'ora mi avrebbe già salvato. Ci sono altre vie?”
“C'è una sperimentazione che sto conducendo proprio in questo periodo. I risultati sono promettenti, ma... è molto cara”.
“I soldi non sono un problema”.
“Già. Ma visto che i tuoi soldi li hai fatti gettando quintali di fango contro la mia scienza...”
“Fidati che non puzzano, come diceva quello”.
“Sarò franco: preferirei continuare a sperimentare su scimpanzè, barboni e sequestri di persona finiti male piuttosto di intascare da uno come te. Ma ci sarebbe un'altra cosa che potresti fare per me”.
“Ma non mi dire”.
“Potresti convertirti alla scienza”.
“E cioè?”
“Una volta sceso da questa collina, potresti convocare una conferenza stampa e spiegare: Dio non mi ha salvato, la Scienza sì, quindi hai deciso di convertirti a quest'ultima e d'ora in poi girerai il mondo aizzando le folle contro chiese templi e sinagoghe, esortando i tuoi fedeli al controllo delle nascite mediante contraccezione e aborto, e devolvendo tutti i proventi delle tue crociate alla ricerca scientifica eccetera...”
“No, questo non succederà mai”.
“E perché?”
“Quello che mi proponi è di fare della scienza una religione”.
“E perché no?”
“Perché la scienza è una cosa, la religione è un'altra, e l'ibrido che ne salterebbe fuori disgusterebbe te per primo”.
“Può darsi, però non è giusto. Ogni volta che una madonnina o un fiume sacro salva qualcuno nasce una religione. Ogni volta che io salvo qualcuno – e fidati che ho una percentuale di successi che straccia qualsiasi madonnina...”
“Lo so, lo so”.
“...Non succede niente. Addirittura hanno la faccia tosta di dirmi che è stato Dio a muovermi le mani. 'sti disgraziati... Sette anni di facoltà, cinque di tirocinio, e poi altri vent'anni a sventrare e ricucire e sperimentare e diagnosticare e mandar giù anfetamine allungate con lo xanax, e poi se ti salvo la vita manco mi stringi la mano, no, t'inginocchi alla Madonnina di Sarcazzo, che a saperlo mi facevo prete, quattro anni di teologia e poi con cinque minuti di omelia hai già salvato la vita a milioni di embrioni... Scusa, ma dov'è la giustizia, eh? Dov'è?”
“La giustizia divina, intendi? Ma tu sei ateo, non dovresti pretendere...”
“Lo so, lo so, dicevo per dire, è che questa cosa mi fa così incazzare... non hai idea, guarda...”
“Ma non ti metterai a piangere, adesso... Dottor Asanta, ti chiedo scusa”.
“Snif, e perché?”
“Dai racconti dei tuoi colleghi mi ero fatto tutta un'idea mefistofelica di te. Vedo invece che sei un buon diavolo. E per questo ti faccio una controproposta”.
“Sentiamo”.

Mezzo secolo più tardi, quando alla fine Sai-Pio morì – di vecchiaia, nel suo letto – fu condotto davanti a San Pietro, che nel vestibolo dell'Alto dei Cieli è Giudice di Istanza Preliminare. “Sai-Pio, ho una buona notizia e una cattiva. La buona è che Dio c'è”.
“Non ne ho mai dubitato”.
“Certo, dicono tutti così quando arrivano qui. La cattiva è che è piuttosto laico”.
“Laico? E com'è successo?”
“Ah, dev'essere stata una depressione, intorno al Millecinquecento... non mangiava più, cominciava a dubitare di sé stesso... era in piena deriva solipsistica, finché non ha letto un po' di Cartesio. Da lì in poi si è fatto tutto l'Illuminismo, Newton, la scienza moderna... tutta roba sua”.
“Anche Einstein?”
“Guarda, lascia perdere, quello ci fece passare dei mesi orribili... per far funzionare le sue equazioni ci è toccato riprendere in mano lo spaziotempo e curvarlo, hai un'idea del casino? No, non ce l'hai”.
“Lasciami indovinare, io per lui sono un povero ciarlatano, o sbaglio?”
“Te lo posso dire, tanto ormai... ti stanno preparando un giudizio coi fiocchi lassù. Il principale ha messo insieme una giuria di tutto rispetto, Charles Darwin, Galileo, Giordano Bruno... quest'ultimo in particolare frigge dal desiderio di mandarti all'inferno”.
“Quindi esiste anche l'inferno”.
“Come no. Ed è pieno di bigotti, te lo devo dire. Io me la sono cavata, pensa, perché prima che il gallo cantasse ho dubitato, dimostrando indipendenza di giudizio”.
“Complimenti”.
“La stai prendendo bene”.
“Inutile angosciarsi. Ho diritto a un avvocato, almeno?”
“Un avvocato? In paradiso? Rifletti bene”.
“Ah già, che scemo”.

Il dibattimento fu lungo (nell'Eternità nessuno ha fretta). Davanti alla giuria l'Accusatore enumerò tutti i misfatti della vita di Sai-Pio, un'esistenza interamente consacrata a circuire il prossimo dietro la scusa di difendere la sua ignoranza dagli arroganti assalti della scienza. Sai-Pio non negò nulla, non avrebbe avuto molto senso davanti all'occhio di Dio.
“Sai-Pio, confessi di avere messo in scena più volte il miracolo della lievitazione?”
“Beh, sì, all'inizio era poco più di uno scherzo, ma alla gente piaceva...”
“Sai-Pio, confessi di avere finto di possedere le stimmate?”
“Devo dire che quell'eritema mi tornò molto utile”.
“Sai-Pio, con quante donne in stato di trance hai giaciuto, al fine di provocare in loro le cosiddette gravidanze miracolose?”
“Non ricordo, e poi non erano tutte le verginelle che dicevano di essere, cioè, contestualizziamo”.
“Sai-Pio, cos'hai da dire a tua discolpa?”
“Mah, niente. A parte che credo di essere uno dei più grandi benefattori dell'umanità. Ma non so se qui sia considerato un titolo di merito”.
“Tu? Un benefattore dell'umanità”.
“Uno dei più grandi, sissignore”.
“Un ciarlatano che simulava i miracoli? Un santone impostore che si faceva intestare i conti correnti dei giovani sprovveduti e delle vecchiette rincitrullite?”
“Già, e non dimentichiamo le frodi fiscali, ne ho commesse di astutissime”.
“E ciononostante ti consideri un benefattore”.
“Beh, avete dato un'occhiata ai bilanci dei miei ospedali?”
“Sono tutti truccati, ovviamente”.
“Sì, no, intendevo ai bilanci di vite umane che le mie cliniche, mirabilmente dirette dal primario dott. Asanta hanno salvato in questi cinquant'anni? Santissimi giudici, non so esattamente quali sono i metri con i quali qui si misura il bene o il male. Io per me ho stabilito questo principio empirico: è bene tutto ciò che concorre alla riduzione aritmetica del dolore. Dopodiché, sì, lo ammetto, per raccogliere fondi ho fatto il buffone. Ho finto un sacco di miracoli, perché è quello che la gente vuole. Ma le monete che la gente mi lanciava le passavo al dottore che faceva i miracoli veri. Ho salvato molte più vite, ho raccolto molti più fondi io, da ciarlatano, che tanti onesti uomini di fede o medicina con i loro ridicoli scrupoli morali piccoloborghesi. Sono stato un vero difensore della scienza, un mecenate”.
“E dovremmo salvarti per questo? Per il fine che giustifica i mezzi?”
“Non vi immaginavate che fossi così laico anch'io, eh?”

Il mondo sarebbe girato diversamente se al piccolo Sai-Pio, nato in un piccolo villaggio delle province meridionali, i dottori non avessero diagnosticato un handicap inguaribile e mortale...

*******
"Non so", disse la pensosa Verola, "morte ce n'è, sofferenza pure, ma manca quell'afflato violento che cercavo, l'odore del sangue che sgorga e scorre, del resto cosa aspettarsi da un prete".
"Ho fatto del mio meglio", osò rispondere don Tinto.
"Del tuo meglio? Andiam bene", commentò Arci. 
"Perché, cosa c'è che non va".
"Hai finito coi puntini di sospensione. Ripetendo il primo paragrafo. Un espediente da corso di scrittura creativa, primo anno".
"Senz'altro tu sai portare la punteggiatura a ben altre vette di originalità espressiva..."
"Non per vantarmi, ma..."
"Domani", disse l'assonnata Verola, "Arci ce lo dimostrerà domani sera. Adesso si va a nanna, ché domani mattina sul presto si va a fiocinare i pesci in via d'estinzione. E a pranzo, grigliata!"
Comments (5)

La supplente

Permalink
(2009)
Agosto
Carissimo Aureliano! Come sta il mio anarcosindacalista prediletto?
Ti scrivo per condividere teco il gaudium magnum: ho rassegnato le dimissioni dal dipartimento. Dimissioni ufficiose, evidentemente, giacché il tignoso cattedratico che ho servito e riverito per un lustro tondo s'era ben guardato dal regolare la mia posizione con un qualsivoglia contratto. O tempora, o mores... Cinque anni della mia unica vita dilapidati alla corte di un barone senescente – consumati a completargli le ricerche, a gonfiarne le bibliografie, per tacere di tutte le sessioni d'esame che mi sobbarcai in sua vece, e tutto questo a che pro? Per vedermi sgraffignare un assegno di ricerca dalla prima figlia di un sodale del congiunto della collega di un ateneo lucano? De hoc satis: mi sono infine affrancata dalla schiavitù. Ora almeno avrò tempo per finire quel lavoro sugli scoliasti del Millecento – ma no, non temere, non verrò inghiottita dal Maelström della disoccupazione. Nel mentre che cerco un'occupazione confacente alla mia formazione (impresa ardua, lo concedo), ho accettato a partire da settembre una di quelle supplenze presso una scuola media secondaria inferiore che da anni mi vengono offerte e che ho sempre snobbato. Per una come me, avvezza a interagire con studenti ultraventenni, sarà senz'altro un'esperienza curiosa, ma (mi auguro) formativa. Chissà che non riesca a introdurre qualche diavoletto preadolescente ai misteri della filologia medioevale.

Settembre
Saluti da un'ormai ex giovane promessa della filologia. Scusa se non ho risposto alla tua cartolina con qualcosa d'altrettanto kitsch, ma ero praticamente rinchiusa in un monastero apuano dove mi sono portata avanti con la mia ricerca sugli scoliasti – e nessuno smerciava cartoncini illustrati. So che riderai nel leggerlo, ma è stata un'estate meravigliosa. Comunque, è giunta al termine.
So che friggi di condividere le mie impressioni sul mio nuovo ambiente di lavoro. Ebbene, i colleghi sono più o meno la congerie di frustrazione e pressapochismo che presagivo. Tu che sei il solito materialista mi dirai che è una questione di stipendio; che nessun ingegno men che mediocre può rimanere a lungo in una posizione professionale così mal remunerata. Come se l'università, da cui provengo, fosse più generosa coi suoi giovani addetti... del resto non c'è bisogno di ripeterci quanto i lavoratori dell'intelletto siano svalutati ovunque. Eppure in nessun contesto mi era capitato di percepire una rassegnazione così disperata come nella sala insegnanti da cui provengo dopo una riunione di tre ore. E dire che i prepuberi non mi sembrano quei selvaggi descritti a tinte così fosche dagli organi di stampa. Non che li conosca ancora molto, le lezioni sono cominciate da appena una settimana – ma mi paiono grosso modo vivaci come lo erano i miei compagni ai nostri tempi. Rammenti? Se seppi conquistare i vostri favori smerciando compiti e ripetizioni, non dovrei faticare troppo ad attirare la loro attenzione, ora che ho un bagaglio ben più ricco di nozioni da offrire. Già ora mi sembrano ben disposti nei miei confronti: quando gli racconto del medioevo mi ascoltano per ore intere, alcuni a bocca aperta. Non so quanto riescano effettivamente a seguirmi, ma si tratta di seminare: qualcosa crescerà.

Ottobre
[...] quanto ai miei studenti, dopo un paio di settimane trascorse a raccontar loro, sostanzialmente, gli affaracci miei (affaracci pure non privi d'interesse linguistico) ho pensato che fosse tempo di verificare le loro competenze linguistiche, e ho impartito loro il primo tema. È stato uno choc.
Più di metà della classe è praticamente analfabeta! Per alcuni di loro sembra troppo ambizioso anche l'obiettivo di tracciare segni consequenziali lungo le righe di un foglio protocollo: vanno su e giù tracciando grafi mostruosi. Li si direbbe tratti a forza da una caverna, non da scuole elementari di un certo prestigio. Persino i più bravi non hanno idea di cosa sia la punteggiatura: alcuni ficcano virgole e punti alla rinfusa tra le parole di un tema già composto, come pittori informali che ritocchino la loro opera scuotendo il pennello delle ultime gocce di tempera. Ovunque strafalcioni, termini dialettali, anglismi storpiati... alcuni di loro quando non sanno compitare una parola la sostituiscono col disegno, o con le orribili “faccine” mutuate da internet e dalla telefonia cellulare: il risultato sono rebus inintellegibili che mi fanno rimpiangere i manoscritti che sfogliavo quest'estate.
Correggere quei brogliacci è un'impresa disperata – non di rado l'inchiostro rosso delle mie correzioni sovrasta il nero e il bleu delle loro bic incerte. Ma poi, che senso ha segnalare i loro errori per iscritto? Tanto non riusciranno a interpretare nemmeno i miei segni...
Peraltro, è una faticaccia che non mi aspettavo. Tutto il tempo che speravo di dedicare alla rifinitura del mio saggio sugli scoliasti se n'è andato in queste disperate e (temo) inutili correzioni. Ho faticato anche a trovare il tempo per rispondere alla tua mail, come vedi. Scusami ancora, tua [...]


Novembre
[...] Dal fronte degli asini nessuna novità. Anzi, ti dirò: per qualche tempo ho temuto che a me inconsapevole fosse stata affibbiata una classe di minorati. Ma il collega al quale ho esibito i brogliacci ha scosso la testa e mi ha, per così dire, rassicurato: il livello dei miei studenti non si discosta molto da quello delle altre classi, così come il nostro istituto non si discosta dalla media nazionale. Con una profonda rassegnazione, di cui ora comprendo meglio le cause, mi ha spiegato che l'abbassamento della competenza linguistica dei bambini è un fenomeno ormai riconosciuto, e in parte riconducibile all'inserimento nella scuola elementare di altre materie, come la lingua straniera o l'informatica, che hanno sottratto ore importanti alla lingua italiana. L'afflusso di bambini stranieri da alfabetizzare ha completato il quadro. Il collega si è perfino provato a consolarmi! Mi ha detto che meno sono pratichi del linguaggio scritto, più tendono ad affidarsi alla comunicazione orale, per cui diventa relativamente più semplice catturare la loro attenzione raccontando delle storie. Me ne ero già accorta, si bevono tutto! Ma descrivendo le mie avventure medievali non ero consapevole di partecipare a mia volta a un'operazione di regressione culturale... dunque è quello che sono diventata? La maestrina dalla penna rossa che racconta favole a bimbi con la bocca aperta? No, questo no.
Ho fatto un esame di coscienza: forse avevo preso questo lavoro sottogamba, credendo che si trattasse di svolgere mansioni già ben definite, a cui avrei potuto dedicare solo una piccola parte del mio tempo e del mio intelletto. Avrei dovuto capire subito che le cose non stavano così. Ma credo di avere ancora tempo per rimediare ai miei errori.
Così ho fatto a me stessa un giuramento: alfabetizzerò questi somari. Li bombarderò di grammatica, li tempesterò di dettati: loro sbaglieranno e io li correggerò, dovesse essere l'ultima supplenza che accetto. Tu mi conosci: non pretendo di saper fare di tutto, ma quel poco che so fare voglio farlo bene.

Dicembre
Carissimo, buon Natale! Io non l'ho mai atteso con tanta trepidazione da quando a undici anni mia zia mi promise la Barbie Monaca. No, stavolta non ho in programma alcuna vacanza-studio in un eremo, ma ho qui a casa una pila di quaderni da correggere che sfiora il soffitto.
Il fatto è che finché non cominci a fare questo mestiere non puoi capire che lavoraccio sia correggere. Per spiegartelo devo fare affidamento ai tuoi ricordi di scuola, rammenti i pomeriggi trascorsi davanti a qualche esercizio nemmeno troppo lungo o complicato, ma comunque noioso e ingrato? Ricordi come bastasse una breve versione, o qualche espressione matematica, o un capitoletto di storia da studiare, a riempire di angoscia quelle ore che in teoria avrebbero dovuto essere le migliori della nostra vita? E la fatica impiegata non tanto a tradurre dal latino o a risolvere le operazioni, no, ma a trovare la forza morale di alzarsi dal letto, spegnere un telecomando, zittire la radio, chiudere la rivista ed estrarre un libro dallo zainetto, ecco, ti devo confessare che le ultime settimane mi sembra di averle trascorse così, a ingannare il tempo mentre la Pila dei Compiti in Arretrato si allungava, in piena regressione puberale. I miei pomeriggi sono inghiottiti da buchi neri di vergogna, addirittura mi capita di bloccarmi ore intere sul divano, davanti a stupidissimi programmi per casalinghe, perché la prospettiva di correggere per la centodecima volta la q di “aqqua”, di “cuadro”, perfino di “squola”, mi schianta. Quello che più mi pesa è appunto il dover ripetere infinite volte le stesse correzioni: mai come ora il rapporto di un insegnante di italiano per ogni sessanta studenti mi è apparso in tutta la sua inicuità. E dire che molti pensano al nostro come a un lavoro creativo! Una catena di montaggio, piuttosto. Almeno funzionasse bene, almeno producesse qualcosa di buono.

Gennaio
[...] Sei stato ben impietoso a rilevare il mio errore... sì, è successo, ho scritto “iniquità” con la c. La tua sorpresa è anche la mia, sai che non sono abituata a refusi del genere.
Ma cerca di capirmi, passo ore intere a correggere sciocchezze, ad accorciare lunghe frasi asintattiche e raddrizzare passati remoti e congiuntivi storpiati, alla fine è normale che qualcosa mi sfugge.
Non so se ti è mai capitato di ripetere una parola a voce alta, o anche solo mentalmente, finché essa non perde il significato e non rimane che una nuda veste di sillabe scorticate: è la stessa cosa che mi capita dopo una sessione intensiva di correzioni di grammatica. A volte ho la sensazione che quel poco di ortografia che riesco a infondere ai miei ragazzi, lo sto perdendo io.
Loro poi non hanno colpa se hanno avuto insegnanti mediocri e remissivi come i miei colleghi, che spesso interpretano il mio impegno come il zelo superficiale di una neofita che non ha ancora capito come vanno le cose a questo mondo, per esempio l'altro giorno il mio collega, te ne avrò parlato, uno di quelli con cui almeno ci si può parlare, mi ha detto testuale: “Vacci piano a correggere la punteggiatura”. E io: perché dovrei andarci piano? È il mio mestiere. E lui, scuotendo la testa: certo che è il tuo mestiere, ma se vai avanti così rischi di bruciarti. Cioè, siamo alle minacce, capisci? Basta l'arrivo di una nuova supplente per farli sentire scomodi sugli scranni sfondati delle loro cattedre, e dire che io all'inizio un po' ci contavo sulla loro collaborazione, e invece no, non mi anno aiutato per niente.

Febbraio
E successa una cosa bruttissima. Pochi giorni dopo l'ultima mail che ti avevo scritto mi é venuta un influenza pesissima, le scuole sono dei focolari di virus non indifferenti. Sono stata a casa dieci giorni e ne ho aprofittato per mettere giù quella ricerca medievale di cui ti parlavo, ti ricordi? Be' la rivista di studi medievali a cui o spedito il mio pezzo me là mandato indietro. Quell'oca della direttrice, una mia ex compagna di corso che se non era per le fotocopie dei miei appunti era ancora dietro a laurearsi, mi scrive che la ricerca “non soddisfa i nostri standard editoriali”??? ed è sempre la stessa rivista che da quando ci lavora lei scazza una bliografia su tre, e hanno il coraggio di criticare, la mia sintassi! Un articolo a cui lavoro da un anno, lo letto e riletto finche non mi e venuta la nausea, senzaltro puo essermi sfuggito un errorino, ma i correttori di bozze ci stanno per questo o no???

Marzo
Caro,
finalmente buone notizie: ti ricordi che ero stata a casa da scuola X 10 giorni? Bhè non me lo sarei mai aspettato, ma la collega di italiano che mi aveva sostituito é passata a farmi i complimenti e ma detto che erano da anni che non le capitava di insegnare a ragazzi cosi preparati in ortografia e in sintassi, e con un lessico cosi ricco e vario, a proprio detto cosi! Mi a anche chiesto qual'è il mio segreto e io:  non cè nessun segreto, gli faccio scrivere e gli correggo, gli faccio scrivere e gli correggo, 6 mesi cosi si vede che qualcosa serve, e tra l'altro io non avevo notato tutto questo milioramento, ma se lo dicono i colleghi penso che probabilmente e vero. Insomma in questo periodo mi sta dando più soddisfazione la scuola che la ricerca!!! ki lavrebbe mai detto??? bacioni

Aprile
Non sto bene
Non e tanto la scuola, la scuola è ok, i ragazzi sono forti, ma i compiti i compiti mi danno la nausea non riesco + a leggerli. O smesso di portarli a casa
Sono sempre stanca vado a letto alle 8 di sera mi sveglio alle 7 sono stanca lo stesso
Pensa che nel frattempo alla rivista anno silurato la tipa che mia rifiutato l'articolo!!!
Il mio professore a detto ke quello sarebbe il posto giusto X me ma io penso ke nn posso propormi in questo stato, faccio tanti errori, hai notato? E appena cerco di correggerli ancora la nausea
Il mio collega un giorno mi a detto secondo me ai perso dei gradi va dall'oqulista, ci sono andata, mi a detto ai perso un grado devi rifare le lenti
Non succedeva da quando andavo alle medie ma già, adesso ci sono tornata
Magari la prossima volta mi mettono lappparecchio per i denti ;-)
Scusa smetto perche mi viene ancora la nausea.
Ciao

Maggio
Il dottore mi a detto che se voglio posso ricominciare a scrivere un po X esercitarmi, e io pensato subito d scrivere a te. Scusa se trovi degli errori, ok???
È stato 1 esaurimento ha detto lui, X lo stress.
Io nn sapevo di essere sotto stress ma lui Signorina si fidi ognuno si esaurisce a modo suo lei si è esaurita il linguaggio
Mi a detto Ci sono quochi che per il troppo lavoro perdono il senso del gusto
e giardinieri perdono il senso dellodorato
lei uguale a perso la cosa ke + aveva coltivato fino da piccola, il gusto X le parole
ma tornerà, ho chiesto, lui a stretto le spalle
poi a suonato il campanello, erano due miei studenti!!! portavano un mazzo di fiori allora o detto: menomale ke nn sono giardiniera! loro nn anno capito.
Mi anno anke scritto un biliettino:


Alla nostra cara professoressa, 

per la pazienza e la dedizione con cui ci ha seguito
in quest'anno meraviglioso,
e con l'augurio di una pronta guarigione.
La classe III H


Post Scriptum: ci manca tantissimoooooo!

Ma mentre cercavo d leggerlo mi e venuto da vomitare e poi mi sono messa a piangere!!! ke vergonia


*******


"Non male, compagno Aureliano, non male", proruppe dopo qualche attimo di silenzio l'ironica Verola, "salvo il trascurabile fatto che avevo chiesto un racconto di morte, e qui la morte dov'è? Dov'è la sua vittoria?"
"Mia signora, se non erro si parlava di morte, sì, ma anche, in un'accezione più figurata, di malattia, di sofferenza, e io ne ho profittato per illustrare la progressiva perdita di senso di una giovane operatrice del comparto cognitario, che con la sua bizzarra sindrome illustra..."
"Seh, seh", interloquì don Tinto, "la verità è che il tuo irriducibile pacifismo t'impedisce di attentare alla vita dei tuoi stessi personaggi, per quanto immaginari".
"Se ho capito bene", disse allora Verola, divertita, "abbiamo qui tra noi uno di quelli che da bimbi si facevano scrupoli a far cadere i propri soldatini in combattimento? Tuttavia non credo che la non-violenza paghi, in narrativa. Per ora Aureliano si è guadagnato una nomination; domani sera vedremo se il nostro amico Parroco saprà trattare con maggior crudeltà i suoi personaggi. E ora a letto, che domani c'è il corso di cucina. Tenetevi per detto che non mi prenderò un partner che non mi sappia preparare un brunch come si deve".
Comments (8)

Di ronda in ronda

Permalink
(2009)

"Mia signora - cominciò dunque Taddei - lei è troppo giovane per ricordare di quando non c'erano le ronde nel quartiere. La gente aveva paura a uscire in strada, non sapeva di chi fidarsi..."

Certo, quando proprio le cose si mettevano male c'erano i Poliziotti. Si chiamavano col telefono, e a volte arrivavano, con le volanti, le sirene, le mitragliette – ma poi si mettevano a fare domande anche a chi non c'entrava o non voleva c'entrare, s'impicciavano dei fatti altrui, insomma alla fine nessuno li chiamava volentieri.

Invece gli Uomini in Camicia Verde, quando cominciarono a venire, non facevano domande. Soltanto: Tutto Bene Signori? Possiamo esservi utili in qualche modo? Erano gentili, e non mostravano le armi (all'inizio non le portavano nemmeno). Si fermavano sempre al bar da Pino a prendere il caffè, e insistevano per pagarlo. Poi si mettevano a chiacchierare, più di calcio che di politica, fino a mezzogiorno, quando andavano a dare un'occhiata al vialetto su cui si affacciavano le scuole. L'anno prima era morto un ragazzino, messo sotto da un pirata, così i vigili non si erano lamentati troppo quando gli Uomini in Verde avevano cominciato a dare una mano col traffico. Inoltre, da quando erano arrivati, non si era visto più un solo spaccino del Magreb intorno alla scuola. Si capisce che i genitori fossero molto contenti delle Camicie Verdi – molti chiesero anche di unirsi, erano felici di dare una mano. Persino alcuni magrebini chiesero la casacca.

Quando ci furono le elezioni, e nel quartiere il partito degli Uomini in Verde vinse a man bassa.

Dopo le elezioni ci furono dei tagli, per via della crisi economica. Davanti alla scuola i vigili non si videro più, ma all'inizio nessuno ci fece caso. Tanto c'erano gli Uomini in Verde, ed erano capaci di dirigere il traffico quanto chiunque altro. Anzi, molti automobilisti del quartiere avevano più rispetto dei Verdi che dei Vigili, perché i Verdi ormai erano tutta gente del quartiere, che sapeva chi eri che mestiere facevi e dove parcheggiavi la macchina: perciò non era proprio il caso di fare gestacci al finestrino. Così, man mano che i semafori si spegnevano (il comune non poteva più permettersi la manutenzione), il traffico rimase in mano ai Verdi, ma tutto sommato funzionava. Si facevano meno incidenti, la gente ci metteva più attenzione. Non era più come una volta, quando guidare in città era come schivare i birilli: adesso dovevi stare attento a chi ti osservava; guidare era tornato a essere un gioco di relazioni. Lo dicevano anche i sociologi: le Ronde ci hanno costretti a uscire di casa, a riscoprire il concetto di cittadinanza attiva, eccetera. Gli Uomini in Verde vinsero anche le elezioni successive.

Però la crisi economica continuava, e molti onesti padri di famiglia cominciarono a borbottare e chiamarsi fuori. Il fatto è che le ronde erano cominciate in sordina, come un dopolavoro per pensionati, e man mano erano diventate sempre più importanti: ora, senza una camicia verde all'incrocio, si rischiava il caos. Fare un turno agli incroci poteva essere molto stressante, e anche se tutti ti dicevano grazie e votavano per il tuo partito, ugualmente dopo un po' cominciavi a sentirti un pirla a farlo gratis. Alla fine restarono soltanto i più esaltati, e i disoccupati: e quest'ultimi (alcuni dei quali magrebini) ormai le ronde le facevano soltanto intorno alla villetta dell'Assessore alla Sicurezza, quello eletto coi voti degli Uomini in Verde. Costui alla fine riuscì a sbloccare qualche fondo comunale, ma erano briciole.

Nello stesso periodo un odioso piromane cominciò a dar fuoco alle automobili del quartiere, una ogni notte. A quel tempo ormai la Polizia non aveva più compiti di sorveglianza: in base al principio di sussidiarietà si dava per scontato che a queste cose ci pensassero le ronde. Anche gli Uomini in Verde ritenevano che la cosa fosse affar loro; soltanto chiedevano ai residenti del quartiere di contribuire alle spese per la vigilanza notturna. Così fu organizzata una colletta: gli Uomini in Verde passavano di casa in casa, e ciascuno dava secondo la sua necessità e la sua cilindrata. Chi aveva il garage pagava il triplo, perché (spiegava l'esattore) anche i garage dei tirchi prendono fuoco molto bene.

Fu una gara di generosità davvero commovente: tutti diedero qualcosa. Solo Pino, il titolare del bar, non volle partecipare, per via di un'annosa bega col boss degli Uomini del quartiere, un vecchio conto da saldare. Beh, sì, certo, era capitato spesso al boss di offrire da bere alle sue Camicie, al termine di un turno faticoso, e tante volte aveva detto “segna sul conto”: sempre in attesa di quei maledetti fondi che non si sbloccavano mai, ma la colpa di chi era? Comunque se Pino non voleva pagare per la vigilanza, per la protezione, era un suo diritto, erano fatti suoi.

La colletta fu un successo: nessuna automobile o garage prese più fuoco nel quartiere. Un mese dopo tuttavia fu il bar di Pino ad andare in fiamme.

I famigliari gli sconsigliarono di chiamare la polizia. Cercarono anche di convincerlo ad accettare la generosa offerta del Boss, che voleva rilevare le macerie del bar per installarci un circolo ricreativo delle Camicie Verdi. Pino però era una testa dura, e aveva contatti in altri quartieri. Vendette la licenza a un suo lontano parente, e sloggiò. Il bar, trasformato in Ristorante, riaprì due mesi dopo, con certi ceffi dentro che nessuno aveva mai visto in zona. Quando gli uomini in casacca verde provarono a chiedere la questua, furono cortesemente accompagnati alla porta con qualche colpetto di manganello alla nuca. Questo rese evidente a tutti che gli Uomini in Nero avevano messo piede nel quartiere.

Gli Uomini in Nero non avevano mai avuto una grande presenza in zona, ma in altri quartieri erano maggioranza. Si raccontavano cose favolose e un po' orribili sui quartieri gestiti dai Neri: stranieri segregati, apartheid sulle panchine ai giardinetti, scolaresche al passo dell'oca, eccetera, ma in gran parte erano leggende. Certo, avevano un'organizzazione un po' più militare, e questo in certe situazioni poteva servire. Per esempio, il Comandante Nero a cui era stato affidato l'ex bar di Pino era un fine stratega e sapeva che lo scontro frontale coi Verdi, per il momento, era fuori discussione. Bisognava andarci piano; così quando seppe dell'increscioso incidente andò pubblicamente a chiedere scusa al Boss dei Verdi, e lo invitò anche al ristorante, a bere alla sua salute e a sue spese. Il Boss ci andò; rifiutare l'invito l'avrebbe messo in cattiva luce, bisognava dimostrare di aver coraggio.

Quel pomeriggio, mentre il boss dei Verdi brindava nel locale dei Neri, ci fu una rissa davanti alle scuole. Una squadra di Uomini in Nero circondò tre magrebini in casacca verde che spacciavano. Questo era quello che facevano per mantenere le loro famiglie, da sempre: prima in borghese, poi, adeguandosi allo spirito dei tempi, in casacca verde. Inchiodati dalle prove fotografiche (e al vecchio semaforo in disuso), i tre spaccini sgamati fecero crollare l'indice di gradimento degli Uomini in Verde nel giro di una mezza giornata. La raccolta fondi porta a porta cominciò a fruttare meno: anche se nessuno osava rifiutare un obolo, quasi tutti piangevano miseria, trovavano scuse, scucivano spiccioli. Il boss Verde era già l'ombra di sé stesso, quando, un mesetto dopo, girando la chiave della macchina saltò in aria. La raccolta fondi fu temporaneamente sospesa. Qualche tempo dopo ci furono le Comunali e gli Uomini in Nero, a sorpresa, s'imposero nel quartiere.

La loro raccolta era molto più scientifica: si trattava anche per loro di dare ciascuno secondo le proprie possibilità, ma queste possibilità erano calcolate in base alle dichiarazioni dei redditi, grazie alle talpe che gli Uomini in Nero avevano nell'Ufficio Entrate. Tanto che alla fine la dichiarazione era meglio farla al sindacato degli Uomini in Nero: così i soldi per la protezione li detraevi direttamente dalle imposte. Insomma, da un punto di vista burocratico il progresso era innegabile. I Verdi erano sempre stati dei simpatici cialtroni in questo senso.

Il guaio dei Neri era la loro fissa col colore della pelle. Il quartiere era multietnico da quasi mezzo secolo; e questa idea che le ronde spettassero solo ai bianchi non passava. Era un vero e proprio boomerang; i ragazzetti con la pelle scura, che fino a pochi anni prima avevano potuto scegliere se spacciare o mettersi la camicia verde e fare le ronde, ora non avevano scelta: dovevano spacciare. Nel giro di sei mesi il parcheggio della scuola divenne una delle principali piazze di smercio della città. La gente cominciò a brontolare. Il Comandante Nero non ci badava. La gente cominciò a sussurrare che il Comandante Nero ci prendesse delle percentuali, in contanti e in polvere purissima. Il Comandante mandò una squadraccia a pestare gli spaccini. Tornarono alla base mogi mogi, coi manganelli fra le chiappe. Cos'era successo?

Era successo che il comandante Nero aveva sottostimato il problema. Il parcheggio della scuola era diventato una piazza talmente interessante da attirare l'attenzione della gang Morales, una banda di narcotrafficanti di origine andina con ramificazioni in tutto il mondo, che finanziava la Revolución Permanente vendendo droga ai viziati occidentali. Il core business dei Morales erano ovviamente i derivati della foglia di coca, di cui detenevano praticamente il monopolio nel lato nord della città: fornitori ufficiali del Sindaco, fronteggiarli era fuori discussione. Non solo, ma lo stile di vita libertario e lassista della gang stava facendo presa sulle giovani generazioni, che dopo un paio d'anni di marce e saluti romani ne avevano già abbastanza. La gang aveva anche un suo braccio politico, la lista rossa Izquierda y Libertad. Per quanto in crescita, difficilmente avrebbe potuto imporsi le elezioni, a meno che... non si fosse alleata coi Verdi.

Fino a qualche anno sarebbe sembrato impossibile, ma la politica ti ficca nel letto di strani compagni. Con l'aiuto dei Morales, la circoscrizione tornò in mano ai Verdi. Il loro capo, fratello minore del Boss esploso, fece giusto in tempo a prestare giuramento: un cecchino dei Neri lo centrò da un cornicione. A quel punto i Morales fecero una chiamata intercontinentale. Qualche giorno dopo il comandante Nero, accerchiato nel privé del suo ristorante, sollevò il capo da un vassoio di coca e vide sugli schermi a circuito chiuso che gli uomini della sua sorveglianza venivano a uno a uno strangolati da... incursori della marina boliviana? Oh, beh, “Me ne frego”, pensò lui: imbracciò il suo bazooka, spalancò la porta e...

***

“Qui non c'era un ristorante, dieci anni fa?”
“Io mi ricordo un caffè”.
“Il bar di Pino. Poi è andato a fuoco, e al suo posto ci hanno fatto una villa. E ora questa... questa voragine”.
“È stato un missile terra-terra, due anni fa. I Verdi stavano facendo una convention, una specie di rito celtico, che ne so io... qualcuno ha informato i Morales...”
“Ma non erano amici, una volta?”
“Divergenze. Pare che i Verdi non volessero più coca nel quartiere. Dicevano: noi vi proteggiamo, va bene tutto, anche le serre di cannabis sui terrazzi sono ok, però niente polvere ai nostri ragazzi. E così...”
“I ragazzi sono passati tutti coi Morales”.
“È più complicato di così. I Morales non hanno problemi a finanziarsi, sono una multinazionale. I Verdi invece continuano a stressare col pizzo, porta a porta, molta gente non ne poteva più. Qualcuno cominciava a rimpiangere persino i Neri”.
“Bene, e noi in tutto questo?”
“Ecco, dopo lo sterminio dei Verdi si è creato un certo senso d'insicurezza nel quartiere. È tutto in mano agli spacciatori e la gente non esce più di casa. Così il Monsignore ha pensato che potrebbe toccare a noi”.
“Ma i Morales...”
“Ci ha parlato il Monsignore, è tutto ok. Anche loro pensano che il quartiere sia un pessimo biglietto da visita. Ha bisogno di una ripulita”.
“Ci alleiamo coi rossi?”
“Solo all'inizio. Mettiamo su una chiesa, un oratorio, una sezione di CL, e quando avremo tirato un po' di gente dalla nostra, allora...”
“Quelli hanno i missili”.
“Ma noi abbiamo Dio”.
“E basta?”
“No, se vuoi saperlo è arrivata anche quella partita di granate all'uranio impoverito, contento?”
“Rendiamo grazie a Dio”.

Se chiedete ai nonni, forse qualcuno ancora si ricorda, di quando non c'erano le ronde nel quartiere. La gente aveva paura a uscire in strada. Non sapeva di chi fidarsi...

*******

"Hai finito?"
"Certo, mia signora".
"Ecco!" esclamò la schietta Verola, "questo sì che è un racconto sul quale valeva la pena di sonnecchiare. Ma quelli del compagno Aureliano, più che sbadigli, mi sono sembrate esibite smorfie di disgusto. O sbaglio?"
"Mia signora", ammise quest'ultimo, "pur apprezzando la prima parte del racconto, in cui Taddei ha ben delineato la deriva sociale conseguente alla privatizzazione della sicurezza, non potevo condividere la caricatura della sinistra extraparlamentare, equiparata per esigenze macchiettistiche a un cartello di narcotrafficanti, mentre è proprio dai gruppi della sinistra cosiddetta radicale che viene l'opposizione più netta a..."
"Stop, stop", lo interruppe l'insofferente Verola, "ricorda che né tu, né Taddei, né gli altri, siete qui per fare politica, quanto piuttosto per roteare la vostra coda di pavone narrativa di fronte al mio severo giudizio critico. Come capiterà a te domani sera, intesi? E adesso a nanna, che domattina si fa spinning".
Comments (1)

La mia amica Boa

Permalink
(2000)
La mia amica Boa mi fa morire:

Per un bel po’ di tempo l’ho persa di vista – è in Zelanda per la muta, mi dicevano. E io a pensare che ci sono dei bei tipi giù in Zelanda, dei ragazzoni tosti, fanno tutti sport, hanno maglioni a collo alto e un erre moscia molto intellettuale. Ne prendi uno e come minimo nel tempo libero restaura le pellicole di Eizensozski, t’immagini? “Quelle del peviodo in bianco e nevo, che pev me sono le uniche che vavvebbe la pena vivedeve… e domani pvendo il lavgo col mio tve albevi, pevché non vieni?” Insomma appena cominciavo a immaginarmela, la mia Boa in Zelanda, mi veniva subito in mente che era meglio non pensarci. E passa un mese, passa una stagione, poi l’altra sera invito a cena il mio amico Prisco, e lui: “Senti, perché non chiami anche Boa, che è appena tornata, ed è ancora un po’ stranita?”
“Boa?” trangugio io, indifferente. “Perché, dov’era stata?”
“Ma vuoi scherzare? In Zelanda per la muta, c’è rimasta sei mesi… Ed è tutta scombussolata, ti dico, ha bisogno di vedere della gente, allora la chiami?”
“Maaa, non so, non è che siamo così in confidenza… però guarda, se la vuoi invitare tu…”

Così io passo tutta la domenica a riassettare la casa, scegliere i dischi e sistemare i soprammobili perché stasera vengono qui a cena i miei amici Prisco e Michele, e la mia amica Boa.
È gente che fuma parecchio. Mi affaccio al pianerottolo e li sento ansimare su per le scale (io sto al settimo piano, niente ascensore). Quando finalmente arrivano, mio dio! È uno stecco la mia amica Boa, uno stuzzicadenti! Sta in piedi per miracolo, anzi, perché Prisco le sorregge le spalle. È chiaro che non mangia da mesi. Così alla fine, non era proprio quel paradiso in terra la Zelanda.
“Ciao Boa! Quanto tempo! Come stai?”
“Bene, e tu?”
“Si tira avanti”.
Ma sì, e anche i tipi locali, gran fustacchioni, ma a vederli da vicino niente sostanza. Gente introversa probabilmente, cinque giorni sui libri e poi a sballarsi nel week-end, classici eiaculatori precoci. Per non parlare della cucina.
“Allora io non sapevo a che ora arrivavate, così ho aspettato a fare il sugo. Pensavo di fare una cosa con tagliatelle pancetta affumicata e un goccio di vino, vi va?”
“Fai fai”.
Apro il frigo e nell’involto della pancetta scopro due dita di muffa bianca e verde.
“Vuoi che ti aiutiamo?”
“Noo, faccio da solo”
Con un coltello tiro via le muffa. È gente che fuma parecchio, in fin dei conti gli puoi mettere davanti qualsiasi merda. Non sentono i sapori.

La cena è un successone, benché Boa non tocchi quasi il cibo. I ragazzi vanno matti per il mio sugo e non chiedono di meglio di spartirsi il suo piatto. (Prisco in particolare è un vero ingordo).
“E allora Boa”, azzardo, “dopo la muta, come ci si sente?”
“Mah”, fa lei, “normale, non fosse per tutta la gente che ti fa questa stessa domanda”.
Ecco, ho fatto un bel passo falso. Ma va bene, niente paura. Reagire prontamente. “Che ne direste di un caffè?”
Prisco ne vuole, Michele ringrazia e saluta perché deve svegliarsi presto, Boa domanda: “Posso buttarmi sul divano?”
“Certo, fa' come fossi a casa tua”.
Mi fa impazzire, la mia amica Boa.

Ritirata strategica in cucina. Ora bisogna fare molta attenzione, una altro errore sarebbe fatale. Analizziamo la situazione. Le forze in campo. Michele se n’è andato: ci siamo io, Boa e Prisco. Bisogna fare conversazione (purché lui non accenda la tv…)
E bisogna far entrare Boa nella conversazione. Sennò con quell’idiota di Prisco si finisce per parlare dei risultati delle partite. Purché non accenda per vedere i gol! Lei si addormenta ed è finita.
La caffettiera comincia a sibilare.
‘E allora’, le domanderò ‘questa famosa Zelanda?’ Per carità! Anche questo certamente glielo chiedono tutti. E nessun riferimento alla muta, al suo colore diverso e al fatto che non mangia mai, sarà ipersensibile a queste cose, dovevo pensarci prima.
La caffettiera gorgheggia. Pensa a un argomento. Un buon argomento. Un argomento intrigante. Cos’hai nella testa?
Niente, maledizione.
Cosa vuol dire niente, cerca meglio...
I maschi.
I maschi zelandesi?
E se le chiedessi semplicemente: ‘e allora, c’erano dei bei maschi laggiù?’ Ma perché no? Questo, forse, non glielo ha ancora chiesto nessuno.
Ma sì, tanto vale rischiare.
La caffettiera tossisce e sputazza. Tiro fuori tre tazzine e il vassoio buono. Mentre procedo verso il soggiorno, mi accorgo che Prisco ha spento la luce. Balugina nel corridoio la luce verdognola della tv.

“Tu non lo prendi il caffè, Boa?”
“No, meglio di no”.
E poi non mi piace proprio come Prisco ci si è steso accanto sul divano, il braccio dietro la schiena, cos’è tutta questa confidenza?
“Ma dico, l’hai visto il rigore che hanno dato a quei bastardi? Non hanno neanche più il senso del pudore”.
Si è preso il mezzo del divano e ha stretto Boa contro il bracciale. E ora io che faccio? Se mi metto sull'altro lato non riesco neanche più a vederla in faccia, altro che conversazione. E perciò resto impalato tra il video verde e il divano. Non va. Così non va assolutamente. Devo muovermi in un qualche modo.
“Ma cosa fai”, dice Prisco, “ti metti a sparecchiare a quest’ora?”
“Sì, domani ho la sveglia presto”.
Che manovra geniale. Lasciamo pure Prisco bollire nel suo brodo, con i suoi stupidi rigori da contestare. Se non s’addormenta in due minuti, Boa si sarà fatta comunque un’idea di quanto è noioso il mio amico, peggio di un birroso zelandese. E nel frattempo, io… ci faccio la figura del single responsabile e organizzato, mica perdo tempo con le partite, io, sparecchio subito e se mi gira lavo pure i piatti. Questo sì che è un buon messaggio.
Arriva una vocina soave dal soggiorno: “Vuoi una mano?”.
“Grazie, non c’è bisogno, faccio io”. Gli ospiti sono sacri.

Sennonché, ci dev’essere qualche cosa che in partenza non avevo calcolato, perché man mano che torno nella stanza verde a ritirare i piatti, i bicchieri, le bottiglie, l’olio, i tovaglioli, la tovaglia… ogni volta che passo le ombre dei miei due amici sul divano sono sempre più vicine, sempre più compatte, ormai si riesce a distinguere un’ombra sola, sempre più piccola. Il calcio in televisione è finito, ora c’è un corso universitario di zootecnia. Prisco non ha mai manifestato nessun interesse per la zootecnia, però non cambia canale. Io non ho voglia di cercare il telecomando nell’oscurità, non ho voglia di accendere la luce, non ho voglia di dare un’occhiata più attenta a quello che succede sul mio divano. L’unica cosa che mi viene in mente di fare è ritirarmi a lavare i piatti. Alla fine, domani devo veramente svegliarmi presto. La vita è dura per tutti.
Lavo piatti e bicchieri, strofino con attenzione forchette e coltelli (mi taglio anche un polpastrello, non è niente). Lavo e risciacquo, non ho mai risciacquato così tanto in vita mia. Si alzeranno prima o poi da quel divano, penso. Verranno a darmi la buona notte.
Asciugo le posate una ad una, asciugo anche i bicchieri, in un bicchiere c’è un alone e allora rilavo il bicchiere, anzi tutti i bicchieri, poi li risciacquo e li asciugo. Ma che ora è ormai. Si sono addormentati? E chissà in che posizione. Ma si sveglieranno bene prima o poi.
Sistemo ogni cosa al suo posto. Nel mio cassetto delle posate c’è una vaschetta per i coltelli, una per le forchette, una per i cucchiai, una (più piccola) per i cucchiaini. Una distinzione pratica che non ho mai voluto rispettare. Stanotte sì. Stanotte metterò tutto a posto. Per dimostrare a me stesso che sono un single organizzato e responsabile.
Organizzato.
Responsabile.
Single.

Non ne posso più. È casa mia, dopotutto. Mi lancio nel soggiorno.
Laggiù c’è un gran silenzio, un film muto alla tv, proietta ombre in bianco e nero. Il divano è immobile.
“Prisco”, bisbiglio, “ci sei?”
Una voce dolce, solo appena un poco rauca. “Ci sono solo io. Prisco è andato”.
“Sì? Ma quando?”
Un gran sospiro. “È sceso, è sceso anche lui”.
“Senza nemmeno salutarmi!”
Un altro gran sospiro. Cerco il suo viso nella penombra, lo trovo ancora più pallido del solito, e imperlato di sudore.
“Boa, ma stai bene?”
Un terzo sospiro e poi, come un miracolo: una lacrima. Una lacrima densa, sospesa al bordo del ciglio, incerta se buttarsi giù: finché non è talmente grossa da tracimare, correndo rapida per la guancia come un prigioniero in fuga.
“C’è qualcosa che non va?”.
“Sto bene, sto bene, è solo un po' dura da mandar giù”.
Stringo le spalle. “È un tipo fatto così”.
Tira su il naso. “Sono tutti uguali alla fine”.
Faccio segno col capo come per dire no, non siamo tutti uguali. Poi mi rendo conto di un particolare. Cioè, del fondamentale.
“Ma tu eri in macchina con lui, no?”
Per la prima volta della serata, mi fissa negli occhi. Ha iridi verdi che io vedo anche nel buio. “Davide”, mi dice. “Io sono davvero molto stanca…”
“Puoi restare qui se vuoi. Prendi il mio letto e io starò sul divano”.
“N-no, no. Resto qui se non ti dispiace”.
La mia amica Boa mi fa impazzire.

Tre giorni dopo viene a suonarmi Michele. “Senti, hai mica visto in giro Prisco? A casa sua non c’è nessuno”.
“No, non lo vedo da domenica sera. Vieni dentro, su”.
“Guarda, grazie, ma vado di fretta”.
“Ti faccio un caffè, dai. E poi ti mostro una cosa”. Ho una gran voglia di mostrargliela, in effetti.
“Che strano però. Venerdì dovevamo andare su in montagna, e lui scompare. Ho chiamato in casa e ho chiamato nel suo ufficio: niente…Toh, ma non mi hai detto che c’era Boa! Ciao, Boa!”
“Sssst! Non vedi che dorme?”
“Ha proprio fatto il nido a casa tua, eh? Sembra quasi che non si sia spostata un centimetro dall’altra sera”.
“Senti, tu sai se c’era qualcosa di tenero tra lei e Prisco, negli ultimi tempi?”
“Uscivano assieme, ma niente di importante. In effetti…”
“In effetti?”
“La prima cosa che ho pensato, è stata: vuoi vedere che non ci sia andato con lei, in montagna, senza dirmi niente. Ma anche a casa di Boa non rispondeva nessuno”.
“Infatti lei è qui da domenica”.
Michele non può reprimere una smorfia incredula – con una sfumatura di invidia che è così dolce da assaporare (io poi la pregustavo da giorni).
“Il caffè è pronto. Se invece vuoi restare a cena, stasera ci sono gnocchi alla parmigiana”.
“Aspetta un attimo. Lei è qui dall'altra sera?”
“A quanto pare. Domenica abbiamo tirato tardi, e credo che lei e Prisco abbiano litigato, non so, io ero in cucina. Quando sono tornato, Prisco era già partito, e lei non sapeva come tornare a casa. Così io le ho detto: puoi restare. Le ho offerto anche il mio letto, ma lei ha insistito per restare lì, e si è addormentata di schianto… e da allora si deve ancora svegliare”.
“Ah, allora sta dormendo da tre giorni”. Michele sembra quasi rassicurato, benché questo sia il particolare più curioso di tutta la faccenda. “Certo che è strano…”, ammette.
“Beh, sai, alla sua età… è appena tornata dalla muta, è ancora scombussolata, è quasi normale”.
“Ma potrebbe essere in coma, o qualcosa di simile… forse dovresti chiamare qualcuno…”
“Non è in coma, ha un respiro regolare. Non ha niente, solo molto sonno. Ha litigato con Prisco, deve ancora superare la muta, ed è debolissima: cose che capitano. Credo che un buon piatto di gnocchi la rimetterà in sesto. È così patita”.
“Per la verità, non mi è mai sembrata così in carne”.
“Ma cosa dici? Non mangia mai niente, guardale il viso: pelle e ossa”. Le passo una mano leggera sulla fronte, imperlata di sudore. La mia Boa.
“Sì, ma guarda un po’ più giù”.
“Cosa c’è più giù?”
“Guardale i fianchi, la pancia… a me sembra quasi gonfia”.

In quel preciso momento mi viene in mente che Michele non ha mai voluto bene a Boa. E anzi, sin da bambini, quando eravamo tutti piccoli mostri, chi con gli occhiali spessi come fondi di bottiglia, chi con un apparecchio dentale a museruola, Michele era quello che si prendeva gioco delle debolezze di tutti. Certo, prima della muta, molto prima, Boa era stata una tipa cicciottella, così come io e lui eravamo stati dei ceffi brufolosi. E allora? L’infanzia è un incubo, ma poi ci si sveglia. Perché mettersi a rivangare queste orribili storie, ora? La verità è che Michele non sa crescere. Non si rassegna al fatto che siamo tutti diversi, che siamo adulti. Continua a vedere in noi i bambini di un tempo.
“Sai una cosa, Michele? Anche tu sei sempre quel ragazzino brufoloso”.
“Cosa?”
“Mi hai capito benissimo”.
Michele finge di non capire, ma gli trema la voce. Asciugandosi, i brufoli gli hanno lasciato due rughe grigie sulle guance, due parentesi per ogni suo sorriso. Lui fa finta di niente, tutti facciamo finta di niente, ma sappiamo che ogni sorriso di Michele va inteso tra quelle due parentesi.
“Ti dico che sei lo stesso ragazzino brufoloso, che non cresce mai. Vieni da me a piagnucolare perché il tuo amichetto del cuore ti ha dato un bidone, doveva venire con te in montagna, e a me cosa mi frega? Prisco è un adulto, ha le sue esigenze, non può mica starti appresso come a un poppante…”
“Ma Davide, cosa stai dicendo…” Finge di non capire, ma intanto ha portato le mani al volto, a toccarsi le cicatrici, come quando da ragazzino si torturava allo specchio.
“E anche Boa, non l’hai mai potuta sopportare, l’hai sempre presa in giro, non capisci che è un momento molto difficile per lei?”
“Ma io…”
“Tu non sai osservare le persone, tu non ti accorgi che le persone cambiano ogni giorno, che Prisco cambia, che Boa cambia, e anch’io cambio, e tu ti ostini a trattarci come bambini, quando il vero bambino sei tu. Il solito bambino brufoloso. E adesso puoi anche andartene, non avevi fretta? Io sono occupato, devo fare da mangiare per Boa”.
Michele scappa via, la faccia nelle mani.

È passato un altro paio di giorni, ma credo che non ci sia nulla di cui preoccuparsi. Un buon sonno non può che farle bene – chi lo sa? Forse erano mesi che non dormiva. Con quel cazzo di vita notturna che si fanno in Zelanda, feste tutte le sere, e dio solo sa cosa bevono, cosa si fumano... certo se trovassi il modo di farle mangiare qualcosa, sarei più tranquillo. Ho sempre la speranza che da un momento all’altro si svegli affamata, davanti a un piatto fumante di trenette al pesto, o di lasagne verdi, preparato da me.
“Boa…”
“Mmmmm?”
“Boa, è venerdì, cosa ne dici di tirarti su? Ti ho preparato il risotto allo zafferano…”
“Mmmmmm”.
“Te lo tengo in caldo, vuoi?”
I suoi genitori? Se fossero in pensiero chiamerebbero; ma quelli sono sempre via… In fondo non c’è da stupirsi che Boa sola in casa faccia la fame. Nessuno cucina mai niente per lei. Ma qui da me può riposarsi. Io intanto le preparo il pasticcio di maccheroni al forno (coi funghi). O la polenta coi ciccioli; perché no? Quando si sveglierà avrà abbastanza fame da mangiarsi un bue.
“Boa, è sabato”.
“Mmmmsì?”
“È sabato sera, magari è ora di alzarsi…”
“Mmmmno…”
“Ti piacciono le scaloppine di vitello? Con sopra una fettina di prosciutto e il formaggio? Io le rosolo con un cucchiaino di Marsala…”
Mi fa impazzire, la mia amica Boa.

Domenica, che è festa, mi sveglio presto e stendo la sfoglia. Ho pensato che non saprà resistere a un piatto di ravioli alle erbe. Col sugo di funghi. O tortelloni di zucca? Potrei fare gli uni e gli altri.
A mezzogiorno, mentre sorveglio le tre pentole (mi sono alla fine deciso per un tris di minestre), sento un sibilo dal salotto, e un soprassalto.
“Boa!”
“Ciao Davide”
Come avevo fatto a dimenticare quegli occhi verdi, sottili, quasi due fessure sospese su un mare interiore?
“Ho dormito”.
“Sì”.
Si stiracchia, languida, e mi mostra che è bellissima. Ma come ha fatto Michele a vederla gonfia, è liscia e sottile da far paura… potrei cingerle i fianchi con una mano sola.
“Avrai fame, immagino”.
“Mmmmm”.
“Ti sto preparato un po’ di cose: tortellini alla panna, ravioli e lasagne al ragù. Sai, oggi è festa ”.
Scuote il capo. “Vieni qui”, dice, indicando il posto sul divano accanto a sé.
“Sono sul fuoco in questo momento, ancora qualche minuto…”
“Vieni qui”.
Qui c’è una cosa da dire. Se sono imbarazzato, è anche perché ultimamente ho messo su un po’ di pancia. Specie nell’ultima settimana, con tutto quello che mangiavo – perché alla fine mangiavo anche la sua parte, non lasciavo lì nulla. E poi ero sempre in casa, uscivo solo per fare la spesa giù all’angolo… insomma, mi sento addosso qualche chilo di troppo. E ora lei mi osserva, alla luce del giorno, e ammicca con quell’occhio, sembra quasi che le piaccia più così.
“Dai, vieni. Siediti”.
Mi siedo.
“Tra qualche minuto c’è poi da scolare, eh!”
“Non preoccuparti”.
Si allunga contro di me, accanto a me, si avvolge a me, si lascia stringere, mi stringe. Allora è vero. Quante volte ho sognato che si svegliasse innamorata di me. Ed è successo. È sveglia ora. E mi vuole. Non ci pensa più agli Zelandesi, quei burini. Non pensa più a Prisco. Pensa a me. Mi stringe sempre più forte. Sempre più forte. L’ho salvata. Ora ha bisogno di me. Ha voglia di me. Apre la bocca.
“Boa, lo sai da quanto tempo io…”
Mi mette a tacere con un lunghissimo bacio. Mi stringe sempre più forte, e mi bacia in eterno. La mia amica Boa. Mi fa morire.

*******

"Non sono sicura d'aver capito il senso", disse la schietta Verola quando, dopo alcuni minuti di silenzio, fu chiaro a tutti che il racconto terminava lì. "Comunque chiedevo morte e un po' di morte Mària ce ne ha messa, quindi brava. O bravo? Boh. Ma spero che Taddei sappia fare di meglio domani sera".
"Perché proprio io?" chiese quest'ultimo.
"Così impari ad addormentarti a metà della storia, bamboccione", rispose la franca Verola: e dopo qualche formula di circostanza congedò l'assonnata comitiva, ricordando che la sveglia era alle 6.30, la cucina restava aperta per la colazione fino alle 7, e alle 7.15 erano tutti attesi in palestra per il training intensivo.
Comments (6)

Storia di Verola e dei suoi sei spasimanti

Permalink
Carola dormì saporitamente per tutto il giorno e la notte seguente, la prima vera notte di sonno da quando si era messa in viaggio, per essere svegliata il mattino successivo dalla sorella di ritorno dal suo viaggio di lavoro. Grande fu la meraviglia di quest'ultima, che durante la sua assenza non aveva smesso di pensare con ansia alla sorella e ai di lei struggimenti, quando si rese conto che l'umore di Carola era mutato radicalmente, da insofferente e malinconico ad allegro, garrulo addirittura. Eppure, quando chiese alla sorella il motivo di un tanto singolare sbalzo di umore, non ricevette in risposta che le solite chiacchiere sull'intollerabile tendenza femminile al melodramma, etcetcetc. “E poi non vuoi realmente saperlo, sorella: ti basti sapere che ho capito di non essere la più insultata delle donne; e che con ogni probabilità non lo sono mai stata”.

Questa frase, che nell'intenzione di Carola doveva troncare la discussione, ebbe come spesso avviene l'effetto opposto, accendendo vieppiù la curiosità di Verola, la quale promise che non avrebbe più cessato di tormentare la sorella finché non le avesse spiegato compiutamente chi fosse quindi da ritenersi la più insultata delle donne, e per quale motivo; al che Carola, che in cuor suo non aveva mai realmente voluto nascondere alla diletta sorella i dettagli del di lei disonore, rispose: “Non intendo dilungarmi, diletta sorella, descrivendoti con dovizia di particolari episodi ai quali comunque non crederesti, e costringendoti a dubitare o di me o del tuo caro marito: ma se proprio vuoi sapere cosa escogita tra le mura del vostro palazzo mentre tu non ci sei, fatti invitare alla premiazione di questo o quel premio letterario, e dopo aver informato il tuo sposo che passerai fuori la nottata, declina l'invito all'ultimo momento e vatti a nascondere nel giardino, più precisamente dietro il cespuglio di alloro che ritrae Dafne molestata da Apollo. Ciò che scoprirai, te lo annunzio fin d'ora, ti getterà in uno stato di angoscia e prostrazione; e poiché conosco la tua indole passiva e aggressiva, so che non ne uscirai se non commettendo qualche atto odioso e irreparabile, di cui, ti prevengo, non mi considero in alcun modo responsabile: infatti è solo per la tua insistenza che mi risolvo ad accusare tuo marito di azioni che vanno contro il buon nome tuo, suo e del vostro reame”. Terminato che ebbe questo discorso, salì a fare i bagagli, perché le scenate non le piacevano e non intendeva certo assistere di persona allo smascheramento dell'anziano satiro: inoltre, ogni ora che passava le pesava un poco di più la lontananza dal marito, quell'amabile furfante.

Per farla breve, Verola non attese nemmeno tre giorni per realizzare il piano suggeritole dalla amata sorella: e constatato rapidamente l'impegno e l'ardore col quale il marito si prodigava a fare strame delle sue promesse coniugali, non attese un'ulteriore settimana per assoldare i legulei più esosi e chiedere un divorzio che la controparte accettò senza grosse difficoltà, ottenendo un'indennità che rese colei che fino a qualche anno prima era la fanciulla più piacente del reame, la più ricca signora del medesimo. E tuttavia, come aveva ben previsto la sorella, nemmeno i principeschi alimenti riuscirono in qualche modo a placare la sua rabbia e l'odio divorante che non nutriva più per il solo marito, ma per gli uomini in generale e forse per l'intera specie umana. Questo cieco furore era reso ancora più acerbo dalla consapevolezza che degli uomini, malgrado tutto, Verola continuava ad avere necessità: come riconosceva chiacchierandone al desco con le amiche più care, non avrebbe potuto realmente vivere senza. “Come del resto non saprei vivere senza un rotolo di quella carta per mezzo della quale, con licenza vostra, ci si netta il culo: e tuttavia, proseguendo nella metafora, non per questo ritengo necessario sposare uno di siffatti rotoli, anzi, non mi trattengo mai con essi più dello stretto necessario: e allo stesso modo ritengo giusto e igienico fare con gli uomini d'ora in poi. Perciò, care amiche e confidenti, ho risolto di coricarmi ogni notte con uno diverso, a cui farò tagliare la testa il mattino dopo”. E quando le amiche le fecero presente che un simile progetto, in linea teorica non privo di interesse, una volta messo in pratica avrebbe avuto fin troppo ovvie ricadute penali, e che forse le gocce che le aveva consigliato il dottore andavano prese con regolarità e con più attenzione ai dosaggi, rispose ringraziandole per il loro gentile interessamento, e farfugliando qualche altra fantasia criminale. Indi se ne tornò alla sua residenza privata, e dopo alcuni giorni di attenta riflessione – l'estate afosa era al suo apice – si decise a sfogliare, per la prima volta, l'enorme archivio delle lettere che i suoi ammiratori continuavano a inviarle.

Era Verola nella lettura, come del resto in ogni sua passione, sbrigativa e spietata: così le bastavano pochi istanti per fare giustizia di mille e più confidenze leziose e lacrimevoli, consegnandole senza scrupoli al cestino che riteneva meritassero. E tuttavia le poteva capitare, dopo cento pagine, di soffermarsi su un dettaglio, su un episodio vissuto o immaginato, purché avesse un inizio, uno svolgimento, e un finale, non necessariamente lieto: purché si trattasse di una storia, insomma. Quest'osservazione la turbò, come accade alle scoperte che facciamo su noi stessi quando non siamo più giovani, e lo stupore per l'aver scoperto qualcosa di nuovo su di noi si mescola subito con la vergogna di non averlo capito un po' prima. “In somma è questo che io cerco: non l'uomo potente, Dio me ne scampi! Né il maschio aitante, né quello divertente: voglio un uomo che sappia raccontarmi delle storie. Ebbene, stanti così le cose, non mi mancano certo i mezzi né il discernimento necessari per trovare un partner all'altezza delle mie esigenze”.

Presa che ebbe questa risoluzione, si dedicò col furore consueto alla scrematura dei suoi corrispondenti: nel giro di poche ore li ebbe ridotti al numero di sei, gli unici che le apparissero dotati di qualche inclinazione alla narrativa. Quella notte stessa, gli stessi sei ricevettero per via elettronica un messaggio che li convocava per l'indomani alla residenza estiva dell'ex moglie del Presidente, per una breve vacanza in tutta intimità. Giunti che furono quivi, ognuno credendo in cuor suo di esser l'unico invitato, essi si resero conto soltanto dopo aver consegnato i propri bagagli a un personale di servizio di non avere più alcuna possibilità di collegarsi col resto del mondo: la residenza, infatti, benché amenissima e dotata di ogni delizia e comfort, si ergeva su una rocca remota, appollaiata su uno strapiombo affacciato su un lago sconosciuto ai più, ignorato da ogni antenna o parabola; né i servitori, armati di tutto punto, sembravano inclini a lasciare più uscire alcuno dei sei: fatto, questo, che confermò in ciascuno di loro il sospetto di essere, più che destinatario di un invito galante, vittima di un clamoroso sequestro di persona.

Si era radunata così, nella rocca di Verola, la più eterogenea delle comitive. Ne faceva parte don Tinto, un panciuto parroco di mezza età che, nonostante fosse stato recentemente sospeso a divinis per cause non meglio chiarite, non per questo aveva dismesso il clergyman nero. Di un medesimo colore, ma di foggia quanto mai diversa erano gli indumenti del compagno Aureliano, anarcosindacalista del comparto cognitivo già attenzionato presso alcune questure; vi era poi il professor Esso, il quale malgrado il titolo insigne non era che un grigio insegnante di scuola secondaria inferiore, mentre il muscoloso quarantenne in tuta da ginnastica blu altri non era che Bartolomeo Taddei, già blogger di una qualche fama nei ruggenti anni del neoconservativismo, di cui del resto non parlava più volentieri. Lo accompagnava il misterioso Arci, col quale aveva condiviso anni prima avventure complesse e sostanzialmente incomprensibili. A completare il quadretto, avvolta da un sobrio tailleur la giunonica sagoma di Mària, transessuale di chiara fama, di cui non vi è certo bisogno di ricordare al lettore i prestigiosi riconoscimenti professionali, né l'indirizzo, né tanto meno il numero di telefono.

Fu proprio mentre i sei ammiratori discutevano concitatamente sul da farsi, davanti a un meraviglioso buffet che ne aveva rinfrancate le forze senza lenirne le angosce, che Verola apparve a loro, offrendo a dodici occhi sbigottiti e ansiosi l'immagine di una bellezza appena scalfita dal Tempo, e ravvivata in compenso dalla furia dei recenti rancori. “Cari i miei spasimanti”, disse, “perché questo voi siete, inutile girarci attorno: se vi ho convocati in questo luogo è perché ho deciso di concedermi a uno di voi... anche se io stessa ignoro ancora di chi si tratti. Ma di questo non mi cruccio troppo: all'eletto intendo arrivare per esclusione, dopo avere eliminato uno alla volta tutti i rivali inadeguati. Volete dunque sapere quali prove dovrete affrontare? Non sono certo troppo gravose. Si tratta di inventare una storia, una diversa ogni notte su un argomento scelto da me, così che in capo a sei giorni avrò ascoltato un racconto dalla bocca di ciascuno di voi: a questo punto eliminerò il narratore più scadente, cacciandolo dalla mia residenza, e proponendo ai cinque superstiti un nuovo argomento sul quale imbastire nuovi racconti, e così via. La competizione, se così vogliamo chiamarla, proseguirà dunque per 6+5+4+3+2+1=21 notti; ai termini delle quali dovrei aver trovato fra voi il mio compagno ideale, o se non altro il meno peggio. Ora che vi è palese il motivo per cui vi ho riunito, e il cimento che vi viene proposto, è tempo che chi tra voi non si ritiene all'altezza dell'impresa lo manifesti, di modo che i miei servitori possano scortarlo all'esterno dei miei possedimenti, dove avrà il resto della vita per piangere l'occasione mancata. Ma siccome nessuno di voi poveretti mi pare così impudente o folle da oppormi un simile rifiuto, non mi resta che guidarvi nel giardino di ponente, dove i domestici stanno già portando il caffè in sei tazzine di finissima porcellana di Hong Kong, una sola delle quali ha l'occhiello del manico sbeccato: ovviamente a colui al quale capiterà in sorte la tazza fallata toccherà per primo di cimentarsi con la non facile arte del racconto”.

A quelle parole gli astanti, sbigottiti, non seppero reagire se non farfugliando qualche espressione di genuino sconcerto. Soltanto Arci ebbe la prontezza di spirito di replicare: “Gentile Signora, come vede nessuno di noi, malgrado in cuor suo non osi ritenersi degno di comparire davanti a un giudice tanto esigente, è abbastanza coraggioso da ammetterlo e levarsi di torno. Per cui siamo tutti in ballo, e balleremo. Ma lei deve ancora dirci quale sarà il primo argomento intorno al quale dovremo imbastire i nostri improvvisati canovacci”.

“Ah già”, replicò Verola, “dimenticavo. Vorrei dunque che per risollevare il mio incanaglito umore ciascuno di voi inventasse o ripescasse dalla sua memoria per me una storia di malattia, sofferenza e morte, individuale o perché no, collettiva: battaglie, guerre ed epidemie saranno parimenti bene accette”. “Ah ok”, risposero i sei, tirando fiato, giacché avevano temuto argomenti assai meno abbordabili. E la seguirono senza altri indugi nel giardino occidentale, dove la tazza dal manico sbeccato toccò in sorte a Mària, la quale, dopo una brevissima riflessione iniziò con voce tonante il suo racconto:
Comments (6)

Storia di Carola e di sua sorella

Permalink
(Introduzione)

Era Carola una giovane di nobili natali a cui la Natura, così parca abitualmente, così prudente nel dispensare i suoi doni ai mortali, aveva viceversa profuso un'avvenenza e un fascino senza pari: e tutto questa senza volerla sprovvista di un'intelligenza acutissima e viva, e di quel buon senso senza il quale tutte le altre doti e talenti non sono che spinte scomposte in ogni direzione, che tirandoci di qua e di là non ci portano veramente in nessun luogo, incatenandoci viceversa ai nostri fallimenti, quando non sono talmente violente da dilaniarci. Non così per Carola, la quale, al culmine di una carriera ricca di soddisfazioni professionali, dopo essere stata lungamente corteggiata da uomini d'arte e di potere, aveva preso in isposo il Presidente di un reame ricco e potente, il cui popolo l'amava e invidiava con alternante intensità.

Un giorno, mentre nel Palazzo presidenziale ella disbrigava gli affari correnti, gettando uno sguardo distratto a una finestra invasa da un cielo insolitamente sereno, Carola si sentì pungere dal cocente desiderio di rivedere la sorella maggiore, con cui madre Natura non era stata meno generosa, e che aveva sposato l'anziano Presidente del reame confinante. Senza indugio ordinò che fossero preparati i bagagli, e si avvertisse l'augusto marito che sarebbe stata assente tutta la settimana. Ma poi, quando già il convoglio presidenziale era a un buon punto sulla strada dell'aeroporto, si accorse di aver dimenticato una spilla che Verola, la sorella maggiore, le aveva regalato in occasione del suo matrimonio, e che nel trasporto degli addii aveva giurato di portare sempre con sé (ma poi aveva chiuso nel penultimo cassetto a partire dal basso del terzo comò della seconda cabina armadio). Ordinato dunque agli autisti e alla scorta un repentino dietrofront, Carola giunse al palazzo presidenziale ben oltre l'ora del tramonto: credette tuttavia che introducendosi con discrezione nei suoi appartamenti non avrebbe disturbato il diletto marito, il quale era solito lavorare fino a tardi ai suoi decreti nella sala del consiglio. Quale fu dunque lo stupore della povera Carola, quando, penetrata nell'alcova presidenziale, vi trovò il diletto marito abbrancato a una robusta domestica circassa?

Sconvolta da ciò a cui il suo cuore non voleva credere, e di cui pure i suoi occhi non potevano negarle la visione, nulla seppe fare nell'orgasmo del momento, fuorché chiudere la porta sulla scena penosa e grottesca insieme, ripartendo nottetempo senza far parola con nessuno di quanto visto e sentito, e senza aver recuperato la spilla fatale. L'episodio non cessò tuttavia di tormentarla per tutta la durata del viaggio. “Non è tanto il tradimento” (pensava, dibattendosi sulla poltroncina di prima classe) “in somma, siamo uomini e donne di mondo, ma proprio sul nostro talamo nuziale? E il mio aereo non era nemmeno partito! Che razza di uomo è mio marito? Vi è mai stato qualcuno al mondo meno provvisto di rispetto per sé stesso, per la carica che ricopre, e per me? E vi è mai stata al mondo moglie di presidente più vilipesa?”

Di un simile tenore erano ancora i suoi pensieri quando finalmente fu ricevuta da Verola, la quale, pur nell'allegrezza per l'incontro lungamente agognato, non impiegò molto tempo ad accorgersi che un'ombra ostinata di malinconia raffreddava l'umore della sorella adorata. Ma per quanto ripetutamente le chiedesse il motivo di questa tristezza, non ebbe da Carola che vaghe risposte sull'insostenibile vanità degli uomini e blablà. “Non vuoi veramente saperlo, sorella: contentati di riconoscere in me la più triste e insultata delle donne”. Andarono avanti così per due o tre giorni, dopodiché Verola, molto presa dalla sua agenda istituzionale, dovette recarsi da qualche parte a tagliare un nastro o consegnare un premio. “Sorella diletta”, le disse allora, “nel tempo che hai trascorso qui tra noi non hai ancora visitato i giardini presidenziali, luogo di delizie se mai ve ne fu uno in questo Reame. Ora che debbo assentarmi per qualche giorno, te li raccomando fortemente: chi sa che una breve passeggiata nell'ora del crepuscolo, quando spira una lieve tramontana e il sole all'orizzonte incendia le nubi più basse e lontane, non possa in qualche modo lenire le tue pene segrete”. “Ci credo poco, mia cara sorella; comunque grazie”, le rispose Carola, e proseguì a soffiarsi il naso. L'indomani, tuttavia, ella si recò davvero nei giardini, dove ebbe modo di verificare che né gli esemplari botanici unici al mondo, né i cespugli dalle forme bizzarre e favolose, né i leggiadri getti d'acqua avevano il potere di rimettere in sincronia il suo cuore intermittente.

Immersa in pensieri di disprezzo e vaghi propositi di vendetta, Carola non aveva prestato attenzione al trascorrere del tempo: grande fu perciò il suo stupore quando – il sole stava per calare – vide entrare dal lato opposto del giardino una trentina e più di servitori provvisti di torce, al centro dei quali distinse una sagoma tracagnotta nella quale riconobbe immediatamente il Presidente marito di sua sorella, che pure sapeva in missione all'estero. Incuriosita dalla situazione, ma tutt'altro che ansiosa di farsi riconoscere dall'ospite di cui non apprezzava i modi un po' villani, né l'umorismo greve, si nascose dietro un cespuglio, verso il quale tuttavia il gruppetto convergeva: sicché la prudente Carola poté osservare la scena che qui sotto racconto quasi come se vi partecipasse.

Man mano che vedeva i servitori avanzare ignari verso di lei, scopriva che si trattava piuttosto di servitrici: alcune nella livrea della Presidenza, altre fasciate da un'uniforme di crocerossina che appariva tuttavia troppo stretta per risultare pratica; altre le si sarebbe dette, dalla divisa ugualmente discinta, agenti delle forze della pubblica sicurezza o delle forze armate; altre ancora, e non erano le più coperte, vestivano in borghese, e dall'acconciatura o dalla montatura degli occhiali si sarebbero dette istitutrici, se il trucco pesante e le movenze non avessero smentito questa prima impressione nel modo più spettacolare. Tutte quante apparivano poi troppo giovani per le professioni che i loro costumi denunciavano, e per qualsiasi altra professione che non fosse illegale ed esecranda; e tuttavia Carola, da donna di mondo quale in effetti era, non poteva negare una certa dose di professionalità ai loro movimenti (che del resto non rimasero impediti dai vestiti per molto tempo ancora). In mezzo a loro, rosso e tronfio, troneggiava il Presidente marito di Verola, come un fiore che non smettesse di attirare a sé farfalle e api danzanti e frementi; anche se Carola trovava più congruo pensare a una piccola pallina di sterco di cervo o cinghiale, rinvenuta in mezzo al bosco durante una battuta di caccia e sfiorata e baciata da cento moscerini e parassiti.

Capita a volte anche al più giudizioso degli automobilisti di non riuscire a distogliere lo sguardo da un catastrofico incidente avvenuto nella corsia contigua: vuoi per quella morbosa curiosità che ci suscitano gli orrori, vuoi per la torva soddisfazione di non farne parte. Similmente, per quanto trovasse ripugnante e osceno lo spettacolo che si dipanava dinanzi a lei, Carola non trovava modo di saziarsene gli occhi. Ad animarla non era certo un lubrico interesse per gli amplessi, il cui ritmo artificialmente sostenuto conosceva fin troppo bene, quanto un senso di distacco, che man mano che la serata andava avanti si impadroniva sempre più del suo cuore. “Ecco dunque”, si diceva, “un uomo che un tempo fu ambizioso e capace di ogni impresa, e oggi è potente e anziano, ricco di ogni cosa al mondo fuorché di giorni da vivere; che realmente potrebbe realizzare ogni suo residuo desiderio: e quello che desidera a quanto pare è essere lo zimbello di giovinette fatue e inconsistenti, parassiti persino troppo piccine per succhiare realmente, intendo per saper trovare la vena giusta. Cosa può trovarvi in loro, di paragonabile ai trionfi dei suoi giorni più verdi? E che fine ha fatto la sua esperienza del mondo, che lo soccorse in cento e più battaglie e rovesci di fortuna, e ora lo abbandona ai capricci di una scolaresca ginnasiale? Come può non rendersi conto che fingendo un vigore impossibile non si prende gioco del Tempo, ma è il Tempo piuttosto a prendersi gioco di lui? Ma è dunque questo il destino dei più dotati fra gli uomini: lottare per tutta la vita per traguardi sempre più ambiziosi, per poi cedere alla più banale e bestiale delle pulsioni?”, e altre simili filosofiche riflessioni con le quali forse Carola nascondeva a sé stessa la ragione più segreta del suo cambio d'umore: la sorella Verola era da compatire quanto e più di lei, e il pensiero, anziché colmarla della necessaria compassione, la consolava: la catastrofe che si annunciava era avvenuta nella corsia opposta alla sua, e un così esibito disprezzo della fedeltà coniugale da parte del cognato non poteva che derubricare il fugace amplesso del marito a banale scappatella, comprensibile, perdonabile e anzi già perdonata, prima che la luce dell'alba venisse a rischiarare la comitiva esausta, che col favore delle tenebre Carola aveva già abbandonato... (continua)
Comments (3)